giovedì 22 maggio 2014

Primi 13 Capitoli (su 28) + Trama del mio libro DOLCE PROFUMO DI GINESTRA IN FIORE (scritto nell'estate del 1990 e pubblicato nel febbraio del 1992).-

Salvatore BRUNO BOSSIO


Dolce profumo
di ginestra in fiore



Salvatore BRUNO BOSSIO


DOLCE PROFUMO
DI GINESTRA IN FIORE
Ringraziamenti
Desidero ringraziare particolarmente l’Editore. Sono poi grato a Lidia Fata che ha dattilografato il romanzo. Per ultima, ma non ultima, ringrazio amorosamente mia moglie Angela che mi ha incoraggiato e seguito durante tutto il tempo.
Concludo precisando che le parole del bigliettino che Maria scrive ad Antonio (protagonisti del romanzo) le ho tratte dalla poesia “Grazie”, scritta da Virginia Spadaro e, su sua richiesta, poi riveduta e modificata da me.
Sono assai grato allo “Studio Fotografico Rose” di Grimaldi, che ha gentilmente e gratuitamente concesso la foto di copertina.


Questo romanzo, scritto nell’estate del 1990, è immaginario. Ogni riferimento a fatti o persone reali, vive o morte, è puramente casuale.

N.B.: Stampato, a suo tempo, nel mese di febbraio del 1992 presso le Arti Grafiche Rubbettino  (Calabria Letteraria Editrice) - 88049 Soveria Mannelli (CZ).

Ad Angela, Luigina e Giovanni Battista,
con tutto il mio amore.
In questa umana realtà,
ove tutto è relativo,
l’amore è grande ed eterno
solo se irreale,
solo se impossibile.
Quasi sempre.
(“Amore e realtà”)





“Quasi sempre”…


PARTE PRIMA
I

Antonio era in classe, seduto al solito banco, l’ultimo della fila di centro, dell’Istituto Tecnico Statale per Geometri dove si era diplomato. Tutti i compagni erano presenti. Si stava ascoltando, seduti ed in silenzio, il professore che spiegava la lezione. Ad un tratto l’aula si trovò all’aperto, priva di soffitto. Era notte. La luna illuminava tenuemente il paesaggio e la classe stessa, che ora si trovava proprio vicino al posto dove lui e Maria, da fidanzati, avevano posato, in piedi, l’uno vicino all’altra, accanto alla ginestra in fiore, per una foto-ricordo, scattata da Francesca, sua cognata. Numerosi oggetti scuri e di forma ovale iniziarono a solcare silenziosamente il cielo, oscurando un po’ la classe ed i dintorni. Di tanto in tanto emettevano dei piccoli raggi luminosi. Antonio e tutti i suoi compagni erano impauriti ed osservavano in silenzio; alcuni di loro si nascosero sotto i banchi.
Lui si sentiva strano, diverso dal solito; mentre anch’egli cercava di nascondersi, quegli oggetti - rincorrendosi velocemente l’un l’altro, verticalmente - formarono un cerchio luminoso nel cielo, proprio all’altezza della ginestra. Un attimo dopo comparve su questo punto preciso, sorretta alle estremità da due pali piantati per terra, la scritta “Questo è il tuo regno”, a forma di arco luminoso. Antonio intuì che essa era rivolta a lui e rimase impietrito, si sentì perduto, provò una fortissima sensazione di nullità che lo schiacciava pesantemente a terra, lo pervadeva tutto, fin nelle ossa, e non gli lasciava più neanche la forza di pensare. Fu così per pochi secondi, ma gli sembrò un’eternità. Poi la scritta iniziò ad affievolirsi e, prima che fosse scomparsa del tutto, egli si svegliò di soprassalto. Provava una sensazione di grande stanchezza ed era molto agitato. Appena si rese conto che aveva soltanto sognato, si calmò e si riaddormentò.
Ora era un poeta sconosciuto di mezza età che, in preda a forte crisi esistenziale ed impegnato nella continua ricerca del vero sé stesso, scriveva:

Chi sono io?

Quante volte mi son chiesto: - Chi sono io?
Quante volte ho cercato di capire il significato più profondo della mia esistenza?
E quante volte mi son reso conto di non aver capito niente proprio quando credevo di aver capito tutto?
La verità dell’esistenza sfugge sempre:
più la tieni in pugno e più ti scivola via.
Più ti dici: - Io sono io,
più ti accorgi che non è affatto vero!
Due esseri completamente opposti
ed in continua lotta si nascondono in me,
e più cerco di scacciarne via uno,
più mi accorgo di non sapere qual’è l’intruso!
Anzi, spesso ho l’impressione
che sia io stesso ad essere l’estraneo
e a dover essere mandato via!
Quanto è difficile capire sé stessi!
Il bello è che si ha la convinzione,
quasi certezza,
di essere pazzi,
tanto pazzi, però,
fino al punto di essere ed apparire seri.


D’un tratto era vecchio, solo, nel letto, moribondo; non aveva più la forza di alzarsi né di scrivere. Però sapeva, era cosciente di aver cercato sé stesso per tutta la vita, senza esserci mai riuscito e nel profondo della sua mente giravano e rigiravano, dapprima confuse, poi sempre più chiare, le parole di una poesia mai scritta sulla carta, ma ora ben incisa nella sua memoria:

Forse un giorno

Verrà forse un giorno
in cui la nebbia
si farà meno fitta
nella mente nostra
di comuni mortali,
granelli di sabbia,
ed allora riusciremo a capire,
a comprendere noi stessi,
le nostre aspirazioni,
i nostri desideri impossibili…
Sì forse un giorno verrà!
Intanto aspettiamo
e ci tormentiamo
nel cercare di capire
- senza riuscirci -
il senso di tutto ciò.
Ma riusciremo a trovare la risposta
col nostro raziocinio?
E’ forse esso
che ci impedisce di vedere la luce?


E con questi interrogativi che si agitavano nella mente, uniti alla mai sopita speranza, quasi certezza, che “quel giorno” sarebbe arrivato, morì, tranquillo, nella più assoluta quiete.
Antonio aveva sognato di nuovo, ma questa volta non si era svegliato affatto. Riuscì a dormire fino a tarda mattinata, senza sognare ancòra.
“Sveglia poltrone! Sono le 10 e dobbiamo andare al mare! Non vorrai mica trascorrer le ferie a letto!?”.
Era la moglie, Maria, che lo destava.
Lui sussultò e si svegliò, mentre la dolce metà spalancava il balcone della camera, inondandola di luce, di quella luce del caldissimo sole d’agosto che era già alto nel cielo.
“Buon giorno, amore. Scusa per la sveglia, ma il sole è già alto ed i bambini sono impazienti… Dormito bene?”.
“Non proprio, cara, stanotte ho fatto un sogno che mi ha turbato molto. Mi sono persino svegliato di soprassalto: provavo una sensazione di grande stanchezza ed ero molto agitato. Non ti ho svegliata perché ho visto che dormivi profondamente… Avevi una espressione tanto dolce sul viso che ho preferito riaddormentarmi ascoltando il tuo respiro. Poi ho sognato ancòra, ma non mi sono più svegliato; ho dormito tranquillo fino ad ora”.
“Amore, sei stato dolce a non svegliarmi. Mi dispiace per il tuo brutto sogno. Io, invece, ho fatto un sogno bellissimo; poi ti racconto tutto… e tu farai altrettanto. Adesso sbrigati a prendere il caffè, che è fumante sul tavolo in cucina, e bada un po’ ai bambini, mentre io rifaccio il letto”.
Antonio indossò il costume, calzò le pantofole e scese in cucina. Sorpresi i due figli, Elisa di tre anni e Michele di due - che erano molto intelligenti e vispi e che avevano imparato a parlare precocemente - nel solito bisticciamento per i giocattoli, sparsi sul pavimento, disse: “State calmi, bambini, non bisticciate, state buoni; fra poco scende la mamma ed andiamo al mare. Vedo che siete già pronti: lei ha già provveduto a farvi fare colazione e ad infilarvi i costumini”.
“Oh che bello! Che bello! Fra poco andiamo al mare” risposero in coro, smettendo di bisticciare.
Lui si sedette e si mise a gustare, con calma, il caffé.
Elisa gli andò vicino e, toccandogli una gamba con la manina destra, chiese: “Papà, papà, me lo compri al mare il gelato?”. Il tono della voce e l’espressione del viso scontavano una risposta positiva.
“Certo, tesoro”.
“Anche a me, papà?”, intervenne Michele.
“Certo, anche a te”.
“E alla mamma?”, di nuovo Elisa.
“Anche alla mamma ed al papà. Lo mangeremo tutti. E adesso aspettate buoni buoni, mentre salgo in bagno”.
I due ubbidirono e si misero a giocare accovacciati sul pavimento, calmi calmi, come se un attimo prima non fosse successo nulla.
Bene, pensò Antonio, e salì sù. Si rasò, come ogni mattina, col rasoio elettrico, si lavò il viso con acqua fresca e indossò i pantaloncini e la camicia con le maniche corte che Maria gli aveva premurosamente fatto trovare in bagno, a portata di mano… e di piedi: c’erano per terra, infatti, anche i sandali.  Lui si levò le pantofole e li calzò. Mentre faceva queste operazioni, non poté fare a meno di pensare, per un attimo, ai sogni fatti durante la notte. Cosa potevano significare? In particolare quella frase, quel forte senso di nullità, di schiacciamento, di perdita di tutte le forze, di assoluta incapacità di pensare, quel sentirsi un oggetto inanimato, incollato a terra, quella sensazione di essere perso, cancellato, quel sentirsi la testa d’un tratto come svuotata, aperta, che non pteva nascondere nulla a quegli oggetti misteriosi, a quelle creature celestiali. Sì, perché sentiva di aver avuto durante l’apparizione della scritta, di quella scritta, la percezione, la certezza che trattavasi di oggetti condotti da creature provenienti da mondi lontanissimi per compiere una missione, per comunicargli qualcosa, qualcosa che ad un certo punto del sogno gli era sembrato riguardasse Dio. Sì, Dio, perché ne aveva avuto netta percezione senza averlo affatto pensato, come se da sempre ne avesse avuto coscienza… E cosa poteva significare, poi, quel poeta sconosciuto che aveva sognato d’essere e che era morto solo ed abbandonato, ma tranquillo, nella più assoluta quiete? E quelle due poesie, che anche ora, da sveglio, ricordava benissimo e che sentiva sue, come se le avesse scritte davvero, da tempo immemorabile?
“Amore, non sei mica cascato nel water?”. Era la dolce voce della moglie, che, nel frattempo, aveva finito di rifare il letto ed era scesa in cucina, dove aveva già lavato e riposto la tazzina e raccolto in una scatola una certa quantità di giocattoli che i bambini desideravano portarsi dietro per giocarci sulla spiaggia.
“Sono pronto, cara” rispose lui e scese poco dopo.
Intanto Maria aveva già riposto nel bagagliaio dell’auto la scatola dei giocattoli, l’ombrellone, gli asciugamani, i due salvagente per i bambini, la radio e la borsa piena di provviste per pranzare sulla spiaggia.
Antonio prese per mano i bambini, chiuse la porta di casa e li aiutò a salire sui sedili posteriori dell’auto, una Ritmo vecchiotta, bianca, a benzina.
“Guida tu, cara” disse alla moglie, che aveva appena finito di controllare di non aver dimenticato nulla, e le porse le chiavi accomodandosi sul sedile del passeggero.
“Va bene, amore”; accese l’autoradio e si avviarono.
II

Era una famiglia tutto sommato felice, ma da circa un anno grossi problemi finanziari assillavano Antonio, a causa del basso stipendio che percepiva, senza puntualità, dalla piccola ditta edile presso cui lavorava come geometra e degli interessi passivi bancari che maturavano ogni tre mesi sui vari scoperti di c/c, cui, suo malgrado, si trovava a dover far fronte, a séguito di cattivi affari in cui sfortunatamente si era buttato, senza esperienza, fin da prima di sposarsi, nel tentativo di mettersi in proprio, assieme ad amici rivelatisi poi, quando ormai era troppo tardi, inaffidabili. Così ora si trovava indebitato fino al collo, con la famiglia da sostentare e con uno stipendio basso e non puntuale, che quando lo percepiva non bastava neanche per pagare i soli interessi sui mutui. Figurarsi poi il fitto di casa, le bollette della luce e del telefono, le rate dell’auto, seppure di seconda mano…
Antonio aveva da tempo cercato di cambiare datore di lavoro per guadagnare di più, ma ogni tentativo era fallito; ogni ditta della zona e dei dintorni aveva già in forza un geometra. Aveva persino pensato di partire, ma poi aveva rinunciato, anche perché nessuno degli amici e parenti era riuscito a trovargli qualcosa di concreto; soltanto vaghe promesse. Stessa cosa era avvenuto per la moglie Maria negli ultimi sei mesi, cioè da quando, vistosi impotente di fronte al continuo aumentare dei debiti, aveva acconsentito, sia pure a malincuore, affinché anche lei si fosse cercata un lavoro. Si era sempre proposto di lavorare soltanto lui, ma di fronte alla gravità della crisi finanziaria aveva dovuto cambiare idea. Lui, che era sempre stato di carattere ottimista, a poco a poco, stava diventando pessimista. I problemi di denaro stavano lentamente facendo breccia nella sua tranquillità familiare; sempre più spesso tornava a casa coi nervi a pezzi, dove la moglie cercava di tranquillizzarlo.
Un giorno - in séguito all’ispirazione poetica che ogni tanto, sin dai tempi quand’era studente, lo prendeva - sul suo diario aveva scritto:

Il Dio terreno

Chi la prima volta ti inventò
certo quanta potenza potevi aver non sapea,
né immaginar potea
che indispensabil saresti diventato!
Quante lingue parli,
e che convincenti modi hai!
Quante persone fai rinascer,
e quante ne uccidi!
Ai ciechi la vista addirittur concedi
ed ai sordi l’udito;
persin procuri l’amor!
Anche l’amicizia da te dipende;
e la pace e la guerra ai tuoi piedi son poste.
Sol la morte sottometter non puoi!
Amato e rispettato è chi ti possiede,
non gradito - al contrario - chi non ti ha!
Ineguagliabil potenza è la tua!
Ma anche per te una cosa è impossibil:
a comprar la gioia… la felicità non riesci;
un vil surrogato ottieni,
se non il disprezzo verso te stesso!
Di rifiutarti nessun uomo è capace,
tranne chi non ti conosce affatto!
E questa è l’origine
dell’immensa tua potenza!
Il Dio terreno sei
e “Denaro” è il tuo nome.


Nel momento di crisi finanziaria durante il quale aveva scritto, Antonio non era tanto convinto delle quattro righe affermanti che anche per il denaro una cosa è impossibile, e cioè l’acquisto della vera gioia, della vera felicità; tuttavia le aveva scritte ugualmente non foss’altro che per evitare un cattivo augurio a sé ed alla propria famiglia, nel senso che così aveva esternato l’intima speranza che la gioia e la felicità sua e di tutta la famiglia fossero e restassero indipendenti dal denaro. Aveva negato, almeno sulla carta, la comune affermazione “niente denaro uguale tristezza”, che nella vita di tutti i giorni si rivelava sempre più vera.
Antonio e Maria, pur avendo già due figli, erano molto giovani: lui aveva trent’anni e lei ventiquattro. Erano sposati da quasi quattro anni. A causa delle continue preoccupazioni finanziarie, unite ad una certa malinconia che ogni tanto lo tormentava, lui si sentiva molto più vecchio. A volte si intimoriva pensando di aver già trent’anni ed un futuro finanziariamente incerto davanti a sé. Altre volte, pur cosciente di avere moglie e figli adorabili, provava una strana sensazione: non si sentiva realizzato, aveva l’impressione di aver sbagliato tutto dall’inizio, da prima del fidanzamento con Maria, forse fin dalla nascita. Con la mente si imponeva di essere felice, di sentirsi realizzato, appagato, tranquillo, ma intimamente sentiva che non lo era fino in fondo, che la sua felicità non era totale. Sapeva, o - perlomeno - credeva di sapere, che la felicità totale era qualcosa di diverso, qualcosa che a lui - per qualche motivo - era preclusa. E ciò lo rendeva triste nel più profondo dell’intimo, anche se esternamente non traspariva nulla.
Antonio e Maria erano entrambi di origine contadina. Le rispettive abitazioni erano contigue in campagna; così essi si erano conosciuti fin da piccoli. Pur non essendo ricchi, i genitori avevano cercato di non far mancare mai nulla ai rispettivi figli e, soprattutto, avevano saputo educarli infondendo in loro un grande senso di rispetto, sincerità ed onestà, oltre che religioso. Lui, diplomatosi geometra, si era messo sùbito a lavorare in quanto non se l’era sentita di farsi mantenere all’università (era il primo di sei figli…) né era riuscito ad organizzarsi come studente lavoratore. Lei, invece, aveva la licenza media. Aveva dovuto interrompere gli studi per motivi di salute ma, una volta guarita, non li aveva più ripresi e si era messa ad aiutare i suoi nei lavori casalinghi e di campagna. Era l’ultima di quattro figli.
Antonio, a differenza dei suoi compagni di scuola, non si fidanzò mai con qualche ragazza durante tutto il periodo degli studi. Non che gliene fosse mancata la possibilità; fu lui a non sentirne affatto bisogno né provò invidia per i compagni ed amici fidanzati: semplicemente gli stette bene così.
Finiti gli studi all’età di circa vent’anni e messosi sùbito al lavoro con la piccola ditta edile del paese vicino, conobbe tante ragazze nei quattro anni seguenti.
Ad una per volta, chiese a parecchie di loro di fidanzarsi con lui, ma tutte rifiutarono, non perché non fosse attraente, ma perché non le corteggiava abbastanza, non insisteva nel modo giusto. Dimenticava che le donne amano i complimenti ed il corteggiamento e passava sùbito alla domanda finale “Ti vuoi fidanzare con me?”. Così tutte rispondevano “No”, anche se magari avessero voluto rispondere “Sì”, e lui, anziché insistere, sùbito si ritirava, dava per definitivo quel “No” e dopo un po’, con lo stesso tipo di approccio, senza convinzione, passava ad altra ragazza. Ormai s’era talmente abituato che non provava nessun dispiacere quando riceveva l’ennesimo “No”; anzi, spesso, nello stesso momento in cui poneva la solita domanda, tra sé e sé dava già per scontata la risposta negativa.
Nella mente di Antonio, Maria non esistette proprio come donna in quei quattro anni, e neanche prima, in quanto, dato che si vedevano quasi tutti i giorni e data la differenza d’età, lui la vedeva sempre nello stesso modo: una bambina, una compagna d’infanzia, una vicina di casa, nient’altro. Non pensò minimamente che il tempo passa per tutti e che quindi ormai anche lei fosse cresciuta, fosse diventata una bella ragazza.
Né notò mai la sorella di lei, Francesca, che le passava tre anni. Forse perché, essendo sempre a contatto, tra loro non poteva esserci posto per qualcosa di diverso dall’amicizia.
Nella sua mente, invece, in quei quattro anni, era rimasta impressa Silvia, una bella ragazza alta e magra come lui e dai lunghi capelli neri, che aveva due anni di meno e viveva in un paese vicino, dove da poco si era messa a lavorare, in proprio, come parrucchiera per signora. Era in gamba: aveva un mucchio di clienti, tutte ricche signore del luogo e dei paesi limitrofi. Alcune erano finanche della vicina città. Silvia era bella, ma nella mente di Antonio - a poco a poco - lo era diventata ancòra di più. L’aveva idealizzata e quando la vedeva non si accorgeva affatto che - in realtà - era bella come tante altre. Ciò, forse, perché era la prima ragazza che lui, appena finiti gli studi, aveva notato con occhio diverso dal solito e di cui sùbito si era innamorato, per quanto potesse capirne di amore, dato che era la prima volta che provava questo dolce sentimento.
Ma fu un sentimento di cui Silvia non seppe mai nulla. Antonio non gliene parlò mai in quanto i propri genitori, cui aveva appena accennato dello strano sentimento, gli avevano risposto che era troppo presto e che, probabilmente, data la sua giovane età e gli studi appena finiti, gli conveniva prima cercare un buon posto di lavoro. “Per quella cosa c’è sempre tempo”, avevano aggiunto.
Non si erano opposti; avevano solo espresso una considerazione, un consiglio.
Ma lui, data l’inesperienza in campo amoroso e l’educazione ricevuta sin da piccolo, fatta anche di obbedienza, prese il consiglio come un ordine ed accantonò in un angolino della mente quel dolce sentimento. “Confesserò il mio amore a Silvia”, si ripromise, “appena troverò il posto di lavoro”. Così si dedicò a cercarlo e, dopo sei mesi, durante i quali non la vide mai, lo trovò.
Nel frattempo lei, ignara di tutto, si era fidanzata e ben presto si sposò, anche perché lui non ebbe mai il coraggio di confessarle nulla, sapendola ormai impegnata con un altro. La sua educazione gli impedì di intervenire; né disse mai qualcosa ai propri genitori; non poteva prendersela con loro. Essi non l’avevano mica costretto a rimandare! Gli avevano solo esposto delle considerazioni… “Era destino”, pensò, e la storia finì lì. O, almeno, sperò intimamente che finisse lì, in quanto non riuscì a cancellare completamente Silvia dalla propria mente, nonostante le tante ragazze conosciute durante i quattro anni.
III

Un giorno, quando Antonio aveva quasi compiuto i ventiquattro anni, Giuseppe, un amico, gli disse: “Hai visto, la tua vicina di casa, come si chiama… Francesca, si è fidanzata. Tu, che da tempo stai cercando inutilmente di fidanzarti con ragazze di paesi limitrofi, perché vai fuori zona? Perché ti fai sfuggire quelle a te vicine? A poco a poco si stanno fidanzando e sposando tutte… Non dirmi che non sono benne! Non hai visto che bella donna è diventata la sorella di Francesca, come si chiama… Maria? Se non fossi già sposato, mi ci fidanzerei io! Stammi a sentire, fidanzati con lei, te lo dico sinceramente, da amico…”.
“Ma non è piccola!?” ribatté lui con tono sorpreso ed incredulo.
“Scherzi!? E’ appena diventata maggiorenne… E’ proprio vero che le ragazze più uno le ha vicine e più non le vede…”.
“Hai ragione; adesso che mi ci fai pensare da questo punto di vista, devo proprio ammettere che non ti sbagli… Maria ha festeggiato il compimento del diciottesimo anno circa due mesi fa; le ho anche fatto il regalo…”.
Quel suggerimento fu determinante per Antonio, lo trasse da quel punto morto, sentimentalmente, in cui si dibatteva da quattro anni.
Egli, infatti, rifletté su quelle parole, visualizzò nella propria mente Maria, l’amica d’infanzia, la vicina di casa, ed in quel medesimo istante si accorse, alquanto meravigliandosi per l’improvviso cambiamento, di pensare a lei come a una persona completamente diversa. Lui, che l’aveva sempre vista come una bambina, d’un tratto si rese conto che Maria era una donna, una bellissima donna. Provò la classica sensazione di chi fa un’importante scoperta. Si meravigliò nel constatare come in un attimo quel sentimento di fraterna amicizia che aveva sempre nutrito per lei, e che lei aveva ricambiato, si stava trasformando in qualcosa di più profondo, di più intimo, che partiva dal cuore e gli riempiva tutta la mente. E si sentì intimamente in torto con Maria, per averla sempre considerata solo un’amica, quasi un amico, un fratello, per non aver mai notato la sua femminilità, per non averla mai trattata da quella bellissima donna quale soltanto allora si rendeva conto che era. Gli sembrò di averle mancato di rispetto e per ciò provò profondo disprezzo verso sé stesso, verso quella sua mente e quel suo cuore che fino ad allora non erano mai stati capaci di farlo innamorare di lei.
Sì, innamorare, perché ormai era sicuro, era certo che quel sentimento che provava verso Maria, superiore a quello che quattro anni prima aveva segretamente provato per Silvia, era amore. Un sentimento tanto forte e profondo che spazzò via, finalmente, il ricordo di Silvia, che gli era rimasto in mente durante quei lunghi quattro anni e che ora, d’incanto, svanì, come se lei non fosse mai esistita. Non restò nessun vuoto: l’amore scoccato così all’improvviso, ma ugualmente grande, gli pervase tutta la mente ed il cuore e lui decise di andare sùbito a casa di Maria, per confessarglielo.
Mentre andava, a piedi, sicuro del suo profondo sentimento per lei, improvvisamente lo assalì un dubbio, che sùbito divenne disperazione: “E se Maria fosse già fidanzata?”.
Sperava ardentemente che fosse libera ed era disperato perché, pur sapendo che ufficialmente non era fidanzata, vi era sempre la possibilità che lo fosse segretamente.
Gli sembrava di non arrivar mai; la strada, che pure era breve, sembrava lunghissima.
Si disperava tra due desideri opposti. L’uno, di arrivare sùbito da Maria per confessarle il sentimento d’amore prima che lo precedesse qualcun altro; l’altro, di arrivare il più tardi possibile per rinviare la triste disgrazia di trovarla già fidanzata e per far, così, durare di più la dolcissima speranza di trovarla libera.
Finalmente arrivò; aveva il fiatone, non tanto per il cammino, quanto per la tensione, per la preoccupazione.
Essendo da poco iniziata l’estate, faceva caldo.
Maria era sola, stava facendo il bucato nella piccola vasca in cemento, di fronte alla porta di casa.
Indossava una camicetta a fiori variopinti ed una leggera gonna rosa, che le arrivava fino alle ginocchia; non aveva calze; i lunghi capelli neri erano legati a treccia sulle spalle.
Era bellissima, più di quanto se l’era immaginata; era alta quasi quanto lui e la vitalità del suo bel fisico magro, ormai di donna, veniva piacevolmente sottolineata dall’abbigliamento estivo che indossava.
I grandi occhi castani si intonavano perfettamente col suo bel viso dolce, che lasciava intendere l’enorme quantità di amore che lei era capace di dare.
Antonio si meravigliò ancòra una volta di sé stesso per non essersi mai accorto prima di lei come donna e si disse: “Ho trovato, finalmente, la donna della mia vita; non posso perderla”.
Con uno stratagemma, si accertò sùbito che non fosse già fidanzata; le disse: “Ciao, Maria. Sono venuto a farti una visita. Ma non vedo nessun altro, sei sola?”.
“Ciao, Antonio. Sì, sono sola. Tutta la famiglia è al lavoro nei campi; anche Armando, il fidanzato di mia sorella”.
“A proposito, un amico mi ha detto d’averti vista in compagnia, l’altro giorno, in paese… Non era mica il tuo fidanzato?”.
“No, era soltanto un amico. Non sono fidanzata” rispose lei sorridendo e scoprendo, così, la sua smagliante dentatura regolare.
Sia ringraziato Iddio, pensò Antonio, e si sentì come se si fosse appena levato un grosso peso dallo stomaco; provò la stessa gioia di un detenuto al quale, in modo improvviso ed inaspettato, viene concessa la libertà; scaricò di colpo tutta la tensione e la disperazione che aveva dentro e provò un grande senso di tranquillità, di serenità, di appagamento.
La dolcissima speranza si era avverata: Maria non era fidanzata! Era libera!
Si avvicinò un po’ di più e, arrossendo come non gli era mai capitato durante tutte le innumerevoli volte in cui aveva giocato, parlato, scherzato e riso insieme a lei, disse: “Maria, soltanto ora mi rendo conto di quanto sei bella. Ti prego, non pensar male: sono sincero. Me la prendo con me stesso per non essermene mai accorto prima, per non averti mai rivolto un complimento, per non averti mai pronunciato una frase dolce, per non essermi mai comportato con te come ci si comporta con una donna bellissima quale tu sei, per non essermi sùbito innamorato di te come lo sono adesso: pazzamente, per non averti mai detto “Ti amo”. Spero con tutto me stesso che non sia troppo tardi… Impazzirei se lo fosse. Desidero tantissimo fidanzarmi con te, ma non voglio affrettare le cose, non desidero metterti fretta, non voglio sùbito una risposta. Mi rendo perfettamente conto che per te è una sorpresa, una cosa inaspettata, improvvisa, come lo è stata per me, del resto. Prenditi tutto il tempo che desideri per pensarci. Ora non dirmi nulla”.
Ella, che non aveva mai ricevuto una dichiarazione d’amore tanto intensa e sincera e che, soprattutto, non si sarebbe mai sognata di riceverla dal suo amico d’infanzia, dal suo vicino, che anche lei aveva sempre visto e trattato come un amico ma mai le era capitato di pensare a lui come persona di cui innamorarsi, rimase senza parole. Provava una forte sensazione di sorpresa e di contentezza contemporaneamente. Sorpresa, perché anche lei d’un tratto si rendeva conto che Antonio, il suo amico fraterno, era un ragazzo attraente, alto e con un bel fisico. Non lo aveva mai notato come uomo neanche lei! Contentezza, perché le sembrava che in quel momento si realizzasse un suo desiderio inconscio, di cui solo ora prendeva coscienza: fidanzarsi con lui ed amarlo con tutta sé stessa.
Ripresasi un po’, disse: “Antonio, sono troppo sorpresa, emozionata. Per adesso ti confermo solo di essere libera, anzi non sono mai stata fidanzata finora…”.
“Basta così, capisco benissimo, non dirmi più nulla, amore” disse lui ed aggiunse, accarezzandole dolcemente il viso: “Adesso ti lascio sola, così potrai riflettere meglio. Ti verrò a trovare saltuariamente e quando ti sentirai sicura, ripeto, senza nessuna fretta, mi darai la risposta, che io desidero sì positiva con tutto me stesso, ma tu devi essere assolutamente libera di decidere come il tuo cuore desidera”.
Detto ciò, se ne ritornò sùbito a casa, a piedi come era arrivato, ripercorrendo quella strada che, questa volta, sembrò assai breve, forse perché ora era tranquillo, sereno.
Sperava molto in un “sì” da parte di Maria, ma si disse che doveva saper aspettare, senza lasciarsi prendere da quell’impazienza che spesse volte, durante gli studi, gli aveva causato tante delusioni. Questa volta non doveva succedere, la posta in gioco era troppo alta: era la sua vita, il suo futuro.
Maria, rimasta sola, continuò a pensare con piacere a quanto le era così inaspettatamente accaduto.
Più ci pensava e più si accorgeva che le parole, quelle dolci parole appena pronunciatele da Antonio, calzavano a pennello pure al contrario, in quanto anche lei si rendeva conto soltanto ora dell’esistenza di lui come uomo, dolce, bello, forte, che ispirava fiducia e sicurezza. Anche lei si meravigliò di non essersene accorta prima, di non aver mai fatto caso alla mancanza di complimenti e di parole dolci da parte sua, di non essersi mai chiesta come mai lui fosse sordo di fronte alla sua femminilità. Doveva essere per lo stesso motivo, pensò, per cui lei stessa non aveva mai notato la sua mascolinità fino a quel momento.
Ma, adesso che lo vedeva come uomo, già sentiva crescere in lei il sentimento d’amore. Sì, crescere, non nascere, perché aveva l’intima sensazione di aver già amato Antonio fino ad allora, senza essersene resa conto, inconsciamente. Ed ora questo amore, come una fiammella, stava a poco a poco sviluppandosi.
IV

Antonio, per il quale fino a poco tempo prima era naturale andare a casa di Maria negli orari più strani del giorno e della sera, evitò di andare da lei per un’intera settimana, resistendo alla forte tentazione che più volte stava per vincerlo.
Fece così per evitare che lei, vedendolo, si sentisse spinta a decidere in fretta. E lui, che le aveva concesso tutto il tempo che desiderava per pensarci, non voleva darle neanche solo l’impressione di aver cambiato idea e di volere la risposta sùbito.
Una sera, pensandola teneramente, su un bigliettino aveva scritto:

Al mio amore

Dolce amore mio
ti amo da impazzire.
Il cuore sussulta nel petto mio…
ne’ la voce tua udire.

In ogni istante de’ la vita mia
mi sei ne’ la mente;
e, nella fantasia mia,
sempre mi guardi e sorridi gioiosamente.

Un infinito amore platonico e sensuale
ho sempre nutrito per te;
e non ci sarà avvenimento alcuno, voluto o casuale,
che distaccar mi potrà da te.


Poi, in calce, aveva aggiunto: “P.S.: Cara Maria, questa poesia l’ho scritta, una sera, pensando a te: te la dedico con infinito amore. Tutto ciò che ho scritto è vero, perché anche se ti ho confessato il mio amore solo pochi giorni addietro, cioè appena io stesso me ne sono reso conto, ormai per me è come se ti amassi da sempre. Non interpretare il presente bigliettino come un sollecito per la tua risposta: è solo un pensierino d’amore. Ti amo tanto, Antonio”.
L’ottavo giorno, domenica, Antonio si arrese al desiderio di vederla ed andò a casa sua, col portamento di sempre, ma questa volta provava intimamente un certo timore, un certo turbamento.
Avevano appena finito di pranzare, c’erano tutti: Maria, la sorella Francesca col fidanzato Armando, i due fratelli, i genitori.
“Salve a tutti e buona digestione!” disse col solito tono allegro. Il suo sguardo s’incrociò con quello di Maria ed ebbe il segreto e reciproco valore di un abbraccio d’amore.
“Salve!” risposero tutti in coro, compresa Maria che non volle insospettire nessuno dei presenti.
“E’ un po’ che non ti si vede…” constatò Francesca.
“Ho avuto una settimana piena di lavoro”.
Ma Maria sapeva che il vero motivo era un altro: non aveva voluto starle attorno per non affrettarla.
Del resto ricordava benissimo che lui le aveva detto che sarebbe andato a trovarla saltuariamente e che lei gli avrebbe potuto dare la risposta quando si fosse sentita sicura, senza nessuna fretta. Era sottinteso che lui non le avrebbe chiesto la risposta nessuna delle volte in cui si sarebbero casualmente visti o quando sarebbe andato a trovarla di proposito, come adesso: era lei che doveva decidere liberamente e senza incertezze, quando e come rispondergli.
E lei, che ormai si era altrettanto pazzamente innamorata, avrebbe voluto dirglielo sùbito, quel giorno stesso. Ma poi pensò di farlo prossimamente, al fine di informare prima i propri genitori, per quel grande senso di rispetto che nutriva nei loro confronti.
“Ti và il solito caffé?” chiese il Signor Vittorio, padre di Maria, “Maria stava giusto per prepararcelo… Come sai, a lei il caffé non piace”.
“Sì, grazie!” rispose Antonio, sedendosi familiarmente a tavola.
Parlò del più e del meno con tutti, come sempre. Ogni tanto si rivolse a Maria, cercando di nascondere quel certo turbamento, e lei rispose con altrettanta finta naturalezza.
“Il caffè è pronto” disse poi lei con grazia, mentre lo versava fumante nelle sette tazzine che erano nel solito vassoio di acciaio cromato ed in ciascuna delle quali aveva già messo due cucchiaini di zucchero.
Dal tono della voce e dal modo con cui servì il caffé, Antonio capì che lei era felice ed un po’ turbata contemporaneamente, anche se faceva di tutto, come lui, del resto, per non lasciarlo trasparire. Ne dedusse che anche lei doveva essersi innamorata di lui, o - forse - lo desiderò.
Una volta preso il caffé, la famiglia, come sempre, si sparpagliava.
Antonio, che lo sapeva, aspettò che Maria restasse sola a lavare i piatti e, al momento giusto, di nascosto, per farle una sorpresa, le infilò il bigliettino con la poesia nella borsetta personale, che era poggiata, semiaperta, casualmente, lì vicino, su una mensola, e che lui ben conosceva: era a tracolla in cuoio bianco, con una “M” dorata come bottone di chiusura, che stava per “Maria”.
Poi le sussurrò in un orecchio: “Ti amo sempre di più” ed uscì per ritornarsene a casa, senza darle il tempo di rispondere.
Anch’io, avrebbe voluto rispondergli lei, ma non fece in tempo e ne fu felice perché rammentò che si era appena ripromessa di informare prima i propri genitori.
Finì di lavare i piatti, li asciugò, li conservò, mise tutto in ordine e prese la borsetta per andare a riporla. Vistala semiaperta, sbirciò dentro per controllare che sua sorella non gliel’avesse messa sottosopra. Essendo tutto in ordine, stava per richiuderla quando notò il bigliettino. Lo prese incuriosita e lo aprì innocentemente, pensando che si trattasse di uno dei soliti scherzi di Francesca. Ma, appena si accorse che si trattava di un messaggio d’amore di Antonio, diretto a lei, lo ripiegò e se lo nascose in tasca per evitare che lo vedesse qualcun altro, provando, nel contempo, una dolce emozione.
Andò, in silenzio, nella sua camera e lo lesse con tenerezza ed amore, meravigliandosi di non essersi mai accorta fino ad allora che Antonio fosse tanto romantico.
Poi, leggendo quel poscritto, si accorse che anche per lei era come se da sempre lo avesse amato, pur essendosene resa conto da altrettanto pochissimo tempo.
Conservò amorosamente nel diario quel dolce messaggio: non ne aveva mai ricevuto un altro così bello, così dolce, così romantico, così pieno d’amore, così sincero.
Sùbito dopo prese un foglio di carta, lo ritagliò a bigliettino, vi disegnò ai quattro angoli alcuni cuori innamorati, belli come sapeva disegnarli soltanto lei che era sempre stata brava a scuola in disegno e li colorò con un pennarello rosso vivo. Al centro, in azzurro chiaro, ascoltando la voce del cuore, scrisse:

Ovunque io vada,
Antonio,
Amore mio,
il pensarti m’è piacevole compagno
e mi dà sollievo nei momenti di tristezza.
Tu, per me, sei la ragione di vita,
la fantasia,
il bisogno di credere in quel mondo
dove la felicità e l’amore
sono i soli comandamenti.


Poi aggiunse in calce: “P.S.: Caro Antonio, questa è la risposta che desidero tanto darti. Non sono brava come te, a scrivere, ma ho ascoltato la voce del mio cuore pieno d’amore, che mi ha ispirato queste parole. Anch’io ti amo sempre di più ed anche per me è come se ti amassi da sempre. Maria”.
“Maria! Maria! Dove sei?”. Era la madre che la stava chiamando.
“Sono qui mamma, nella mia camera”, affrettandosi a ripiegare in quattro il bigliettino e ad infilarlo nel diario, che sùbito ripose in un cassetto dell’armadietto.
La madre arrivò, si sedette affettuosamente sul lettino accanto a lei e disse: “Sento che vuoi dirmi qualcosa… Sono tua madre, ti conosco bene…”.
“Sì, mamma, è vero. Sono felice perché sono perdutamente innamorata di un giovane che non immagineresti mai e che mi ha chiesto di fidanzarmi con lui. Ho deciso di dirgli di sì perché ci amiamo molto entrambi, ma ancòra non gli ho detto nulla perché volevo prima farlo sapere a te ed a papà”.
“Cara bambina mia… Sono commossa, sono felice per te. Forse ho capito di chi si tratta. In questi giorni ti ho vista pensierosa, diversa dal solito… Poi oggi, quando è passato lui, Antonio, ho sentito, forse per istinto materno, che tra voi due non c’era più la normale amicizia di sempre, ma molto di più… Ti ho vista, come dire…turbata, tesa ma nello stesso tempo felice. Nessun altro se ne è accorto…”.
“Oh, mamma, riesci a leggermi come un libro aperto. Sì, è vero; io ed Antonio ci siamo pazzamente innamorati. Presto gli darò la risposta, però non prima di aver informato papà”.
“…Che ne sarà senz’altro felice, bambina mia” aggiunse commossa la madre.
Quella stessa sera Maria informò suo padre che fu, infatti, altrettanto felice per lei.
Ora, finalmente, poteva dare la risposta ad Antonio, il quale nel frattempo, dato che ancòra non l’aveva fatto, forse per qualche motivo inconscio, informò i propri genitori. Essi, convenendo che ormai lui aveva i requisiti per fidanzarsi (il lavoro, l’età giusta…), furono assai sorpresi e felici nello stesso tempo. Sorpresi, perché anche loro non si aspettavano che tra Antonio e Maria sarebbe potuto nascere l’amore, dato che lui, pur essendo sempre stato a contatto con lei, mostrava ormai da quattro anni di volersi fidanzare con qualche ragazza dei paesi limitrofi, fuori zona, insomma. Erano ben al corrente, informati da lui stesso, di tutte le ragazze inutilmente avvicinate in quegli anni. Felici, perché conoscevano Maria fin da quando era nata e sapevano quanto era educata, fedele, lavoratrice, onesta, dolce, bella… Insomma era proprio fatta per lui.


Maria attese Antonio con impazienza, il quale presto si fece vedere, con la scusa di chiedere in prestito un arnese a suo padre.
Lei era sola, stava stirando della biancheria sull’apposito asse, in cucina.
Non appena lo vide, il cuore le sussultò nel petto dalla gioia. Disse: “Antonio, amore, anch’io ti amo pazzamente. Sono pronta per darti la risposta che aspettavi: Sì, accetto di fidanzarmi con te”.
“Sono contento, sono l’uomo più felice del mondo” disse lui, balbettando dall’emozione, dalla felicità, come non gli era mai successo. Poi si avvicinò di più e le diede un tenero bacio su una guancia.
“Ho letto il tuo bigliettino, il tuo “pensierino d’amore” trovato nella borsetta domenica: mi è piaciuto assai, sei molto romantico. E pensare che non lo sapevo! L’ho conservato come ricordo del nostro fidanzamento. Anch’io, che però non so scrivere come te, ho voluto dirti qualcosa con questo bigliettino” disse Maria e, porgendoglielo, aggiunse: “Leggilo a casa tua, quando sarai solo; se vuoi, conservalo anche tu per ricordo di questo nostro amore sbocciato così all’improvviso, ma ugualmente forte, profondo”.
Ormai non si sentivano più impacciati, turbati, ma di nuovo come quand’erano semplicemente amici; naturali, liberi, spontanei. Si informarono a vicenda sull’accordo pieno dei rispettivi genitori per il loro fidanzamento e fecero piani per il futuro.
Tornatosene a casa, Antonio andò in camera sua e lesse, emozionato, il bigliettino. Restò molto colpito da quelle parole; anche lui non aveva mai ricevuto un messaggio così traboccante di sincero amore, di genuinità, di innocenza, così romantico. Anche lui lo conservò nel suo diario, con amore, come aveva fatto Maria.
Il fidanzamento diventò ufficiale di lì a poco, col classico scambio degli anelli. Decisero, con l’accordo delle rispettive famiglie, di sposarsi all’incirca tra due anni. Non per conoscersi meglio: non occorreva, si conoscevano praticamente dalla nascita, ma per far sì che lui, continuando a lavorare, potesse mettere assieme tutti i soldi necessari per acquistare i mobili e per averne un po’ da parte.


Durante quei due anni, Antonio e Maria non ebbero mai un litigio, neanche un piccolo screzio, come in genere avviene tra tutti gli innamorati. Lui continuò a lavorare con la piccola ditta edile del paese vicino, viaggiando tutti i giorni per recarsi in sede; lei continuò ad aiutare i genitori nei lavori casalinghi e di campagna. Nel frattempo fecero molte fotografie assieme, per immortalare quei dolci momenti d’amore.
La foto più bella, che poi fecero anche ingrandire ed incorniciare, un giorno la scattò non un professionista, bensì Francesca, prima che si sposasse di lì a poco.
Era primavera: tutte le piante erano in fiore, il paesaggio era lussureggiante e l’aria profumata. Proprio alla base del monticello dietro casa di Maria, risaltava su tutta la florida vegetazione una bella ginestra in fiore, verde e gialla, che emanava il suo caratteristico profumo. Francesca ne notò la bellezza e, pur sapendo appena usare la macchina fotografica, suggerì ai due fidanzati di andarci a posare accanto, in piedi, l’uno vicino all’altra, per una foto-ricordo. Così fecero; così lei li immortalò accanto a quella bella e profumata ginestra.
V

Arrivò, dopo tanto amore profuso reciprocamente, l’atteso giorno del matrimonio, all’inizio dell’autunno.
La chiesa prescelta per la cerimonia era quella principale del paese in cui si trovava la sede del datore di lavoro di Antonio e dove, dopo sposati, sarebbero andati ad abitare in fitto, per avvicinarsi al posto di lavoro.
Era una bellissima giornata di sole.
Antonio, in tight e papillon, felice ed emozionato contemporaneamente, arrivò, come voleva la tradizione, per primo e si mise ad aspettare la sposa, in piedi, di fronte all’entrata della chiesa.
Maria, altrettanto emozionata e felice, arrivò di lì a poco col suo bianco abito da sposa: era bellissima. Quell’abito esaltava ancòra di più la straordinaria bellezza del suo dolce viso di donna al culmine della felicità, lo sguardo emozionato dei suoi grandi occhi castani, il colorito di quelle guance morbide e lisce…
Antonio per un attimo rimase allibito di fronte a tanta bellezza, poi si avvicinò alla sua destra, le diede un tenero bacio sulla fronte e la condusse lentamente all’altare, al passo con la romantica melodia dell’organo.
La chiesa era addobbata con fiori variopinti, nastri bianchi e fiocchi di vario tipo e grandezza.
La cerimonia, il momento del “sì”, il pranzo al ristorante con i numerosi invitati, le foto, gli auguri… Fu la giornata più piena, più bella, indimenticabile, per i novelli sposi.
Altrettanto indimenticabile fu la prima notte d’amore, nella camera da letto della nuova casa.
Erano entrambi inesperti, per ciascuno dei due era come fare una scoperta. Non avevano mai avuto rapporti intimi né tra loro né con altre persone: erano entrambi puri. Si vergognavano reciprocamente.
Antonio si spogliò per primo, totalmente, e si coricò con tanto desiderio.
Maria, di nascosto, lo guardò infilarsi nudo nel letto e rimase meravigliata, le piacque quel fisico magro e muscoloso, così virile.
I lunghi capelli neri, questa volta sciolti, le coprivano le spalle, mentre iniziò a spogliarsi lentamente, timidamente.
Antonio faceva finta di non guardare, ma la seguiva con la coda dell’occhio.
Guardandosi nello specchio del comò, lei si levò gli orecchini e la collana di perle che portava e ripose il tutto nel cassettino di destra del comò stesso, sùbito sotto lo specchio.
Si avvicinò al lato destro del letto, vi si sedette sopra e si levò le scarpe, le lunghe calze azzurre sfumate, quasi completamente trasparenti, la gonna e la giacca del tailleur fantasia che indossava, la camicetta in seta con la spilla.
Era la prima volta che Antonio la vedeva nuda. Aveva un corpo bellissimo, ben formato; la carnagione era chiara. Il reggiseno e le mutandine di pizzo bianco evidenziavano ulteriormente la sua femminilità, la sua desiderabilità.
Antonio era al culmine del desiderio, pe porse una mano e l’aiutò ad infilarsi nel letto accanto a lui.
I due corpi caldi si abbracciarono, entrando in contatto, per la prima volta, pelle contro pelle: la sensazione che ne scaturì fu piacevolissima, indescrivibile.
Sotto le lenzuola, lentamente le tolse il reggiseno e le sfilò le mutandine. Le palpò con le mani quei grandi seni tondi e sodi, la accarezzò tutta, la strofinò, la baciò prima sulla bocca, poi sul collo, dietro gli orecchi, sui seni e sui capezzoli turgidi, sul ventre, sul pube, facendole provare sensazioni di piacere estremo.
Lei, timidamente, cercò di fare la stessa cosa a lui, che la incoraggiò teneramente: gli passò lentamente la schiena con una mano, lo accarezzò, lo baciò sulla bocca, sulle spalle, sul petto, sul collo ed anche lui si eccitò da impazzire.
Poi lui la fece mettere supina, le allargò le tenere cosce con le mani e le andò sopra, penetrandola dolcemente, piano piano, senza fretta, senza farle male, con movimento ritmico, fino a raggiungere assieme il culmine, il non plus ultra, quello che dalla scuola sapevano chiamarsi orgasmo, che li fece gemere di piacere.
Maria sentì come un calore salire dentro di sé, mescolato ad un fastidioso dolore al basso ventre che sapeva essere il prezzo della “prima volta”.
La conferma della sua verginità, se ve ne fosse stato bisogno, era netta: le lenzuola si erano macchiate, rosso vivo.
In quel momento Antonio provò un’infinita tenerezza per lei, perché era stato il primo uomo della sua vita, perché lei gli si era concessa senza riserve, perché ora sentiva di amarla ancòra di più.
La tirò a sé e le aderì tutto, la strinse forte, le baciucchiò quel liscio corpo caldo per lui non più sconosciuto, privo di segreti.
Poi la penetrò di nuovo, più lentamente di prima, per non farle male, messi all’incontrario, lei sopra e lui sotto, godendo il contatto eccitante di quel seno nudo contro il suo petto. Toccarono il culmine per la seconda volta.
Ripresero le forze dormendo un po’, abbracciati stretti stretti.
Al risveglio rifecero ancòra all’amore, vollero toccare di nuovo il paradiso, raggiungere ed abbandonarsi a quella sensazione indescrivibile che li fece gemere di piacere per la terza volta in quella bellissima prima notte.
Circa un anno più tardi arrivò il primo frutto del loro amore, nacque Elisa, la gioia di mamma e papà. Antonio provò forte senso di amore paterno verso quella creatura, frutto del loro desiderio, e si sentì più completo come uomo e come padre e, nello stesso tempo, più responsabilizzato, più maturo. Rimase colpito dal grande istinto ed amore materno con cui Maria, da parte sua, diventò e sapeva essere mamma; era sempre premurosa, paziente, dolce.
Ancòra un anno dopo arrivò il secondo frutto a premiare il loro desiderio: nacque Michele. Ed anche su quest’altra creatura seppero riversare lo stesso grande amore di genitori affettuosi e premurosi, accogliendola nella loro famiglia senza nulla togliere all’amore che riversavano già su Elisa, anzi ingrandendolo e comprendendovi entrambe le creature.
Poi i problemi finanziari cominciarono ad assillare Antonio, che non riusciva più a controllare i debiti cui sfortunatamente si trovava a dover far fronte con quello stipendio basso e non puntuale.
E, come se ciò non bastasse per una persona in cattive acque che deve pur sempre sostenere la moglie ed i figli piccoli, ogni tanto lo turbavano quella strana sensazione di aver sbagliato tutto fin dall’inizio, quel non sentirsi realizzato, quella tristezza interiore di cui lui stesso non conosceva la causa. Sapeva, sentiva di non essere felice totalmente; immaginava la felicità totale e, per quanto si proponesse di raggiungerla, s’accorgeva che, per qualche motivo di cui non riusciva a rendersi conto, gli era preclusa, sbarrata, come se lui, proprio perché lui, avesse un confine, un limite invisibile ed invalicabile.
All’esterno non traspariva nulla di questa tristezza interiore, non perché la nascondesse volutamente, ma perché gli tornava naturale; senza rendersene conto, la sua mente teneva separata, per qualche motivo, la vita quotidiana dai suoi interrogativi interiori, profondi, rendeva incollegabili le due cose…
VI

“Allora, cara, raccontami il tuo bellissimo sogno di stanotte” disse Antonio alla moglie, sbirciando dietro per controllare che Elisa e Michele non stessero combinando qualche marachella e mettendosi poi più comodo sul sedile.
Maria scostò dagli occhi alcuni capelli che, più corti degli altri, non raggiungevano la treccia e svolazzavano al vento del finestrino. Poi rispose: “Certo, amore” ed iniziò.
“Non è molto lungo, però, dopo, converrai che è bellissimo. Allora, ho sognato che tu sei ritornato da un viaggio lontanissimo, io ti sono venuta incontro sull’uscio e tu sei corso ad abbracciarmi, sollevandomi da terra. Mi hai baciata appassionatamente, con un’espressione sincera ed al culmine della felicità che ti si leggeva sul viso rosso dall’emozione e che io ho avuto la sensazione, la certezza che non avevi mai provato prima, contemporaneamente mi hai detto queste testuali parole: “Sei il mio vero amore. Ho dovuto faticare molto per capirlo, ma adesso ne sono certo: sei tu l’unica donna della mia vita, sei la mia vita, ti amo e ti amerò con tutto me stesso per l’eternità”. Poi, altrettanto calorosamente, hai abbracciato i bambini, Elisa e Michele, che erano accorsi a darti il bentornato. Sùbito dopo, ho rivissuto la nostra prima notte d’amore, dall’inizio alla fine, intensamente, proprio come se davvero il tempo fosse ritornato indietro. Anzi, ho ancòra l’impressione che stanotte sia stata davvero la nostra prima notte. Dì la verità, amore: a parte la stranezza, non è bellissimo ciò che ho sognato?”.
“Certo, cara, è davvero bello. Speriamo che ci porti bene” rispose Antonio, tornando a malincuore con la mente alla realtà, alle preoccupazioni finanziarie, da quell’idillio in cui si era lasciato dolcemente trasportare dal racconto.
“Ho una strana, piacevole sensazione”, disse lei. “Sento nel mio intimo che ben presto tutti i nostri problemi finanziari finiranno. Ti sembrerò sciocca, fantasiosa, ma lo sento davvero. In ogni caso, staremo a vedere. E adesso, amore, se vuoi, parlami del tuo brutto sogno di stanotte, che ti ha turbato tanto”.
“Certo, cara” e le raccontò per filo e per segno tutto ciò che aveva sognato e che gli aveva causato tanta agitazione e stanchezza. Le parlò di quegli strani oggetti volanti, del posto della ginestra in fiore, del cerchio luminoso formatosi nel cielo, della scritta a forma di arco luminoso che lo aveva impietrito e gli aveva dato quell’impressione di forte nullità e schiacciamento, della mancanza assoluta di forza, dell’incapacità di pensare, della percezione di Dio… Cosa poteva significare tutto ciò? Poi le parlò dell’altro sogno, in cui lui era stato un poeta sconosciuto e durante il quale aveva dormito tranquillo, senza svegliarsi. Cosa potevano significare quelle due poesie che ricordava benissimo a memoria e sentiva come fossero state scritte da lui tanto tempo addietro? E perché aveva sognato d’essere un poeta sconosciuto, di mezza età, in crisi esistenziale, alla ricerca del vero sé stesso? Perché aveva sognato di morire con quella speranza, tranquillo, nella più assoluta quiete? E perché solo ed abbandonato?
Erano interrogativi senza risposta. Antonio, nel momento stesso in cui se li poneva, cercava di rispondere, ma inutilmente; l’unico risultato che otteneva era un certo nervosismo.
Né Maria, che aveva ascoltato tutto con un misto di stupore ed apprensione, riuscì a dargli qualche indicazione. Anzi, visto che lui era sempre più teso, sdrammatizzò dicendo: “ Calmati, amore. Probabilmente questi sogni non significano nulla d’importante. Saranno stati causati dalla tensione per i debiti, dal fatto che sai scrivere poesie, da quel libro che hai letto tempo fa sui dischi volanti, da quei vari films sugli extraterrestri che abbiamo visto in televisione, dal tuo sentimento religioso…”.
“Sì, cara. Hai senz’altro ragione” convenne. Poi aggiunse, indicando il mare con un gesto del capo: “Non spremiamoci più, pensiamo a divertirci, siamo quasi arrivati…”.
Erano le 11 precise quando parcheggiarono la Ritmo sullo spiazzo in terra battuta, assolato e polveroso, già pieno di auto, sito nei pressi della spiaggia da loro preferita: quella dove nel mare c’erano numerosi scogli e scoglietti.
Scesero dall’auto, scaricarono tutto e, portando ciascuno qualcosa, compresi Elisa, che volle portare l’ombrellone, e Michele, che preferì trascinare sulla sabbia infuocata il relativo bastone, divertendosi a sentirne il rumore, raggiunsero il punto prescelto. Avevano faticato un po’ per arrivarci perché avevano dovuto camminare a zigzag tra i numerosi ombrelloni e bagnanti distesi al sole. Michele provò a piantare il bastone, poi rinunciò affaticato e lo porse al papà che, col giusto metodo e senza sforzi, lo piantò e ci sistemò sopra l’ombrellone aperto, porsogli da Elisa. Si misero in costume ed andarono tutti e quattro contemporaneamente verso l’acqua che, pur essendo caldissima e piacevole, al primo contatto coi piedi, con le gambe, con le ginocchia, lo fu assai meno. Infilarono i salvagente ai bambini e li fecero bagnare lentamente, per evitare loro il fastidio del brusco cambiamento di temperatura che si prova sempre appena ci si cala in acqua. Superato il momento critico, Elisa e Michele incominciarono a divertirsi un mondo: ciascuno faceva schizzare l’acqua addosso all’altro, si rincorrevano, nuotavano, ridevano. Naturalmente, i genitori li tenevano d’occhio, raccomandando di stare nell’acqua bassa. Poi fecero il bagno anche loro, calandosi di colpo in acqua per superar prima l’iniziale fastidio. Nuotarono affiancati nell’acqua alta e raggiunsero lo scoglio che si trovava ad una sessantina di metri dalla spiaggia e che in quel momento era deserto. Vi salirono sopra entrambi e vi si sedettero a prendere il sole, tenendo sempre d’occhio Elisa e Michele, che nel frattempo avevano fatto amicizia con altri bambini e stavano costruendo un castello di sabbia.
Antonio non poté fare a meno di notare la bellezza del corpo bagnato di Maria, coperto di mille goccioline d’acqua salata che rifrangevano i raggi del sole. Il reggiseno ed il costume erano color granato. Il ventre era liscio, perfetto, non recava nessun segno delle due gravidanze. Antonio diede uno sguardo ai bambini, che giocavano sempre sulla sabbia, fuori dal pericolo, e si sdraiò assieme a sua moglie.
Incurante del fatto che potessero scorgerli dalla spiaggia, l’attirò a sé, l’abbracciò forte ed incominciò a baciarla. I loro corpi erano ancòra bagnati. Pelle salata contro pelle salata. La strinse più forte e le fece sentire l’erezione; lei non si spostò, ma si agitò sinuosamente sui fianchi. Lui le fece scorrere le dita lungo la schiena, toccandole la lunga treccia dei capelli; nel frattempo si diedero un bacio di fuoco. Poi passò lei le dita sulla schiena del marito, lentamente, molto lentamente; quando giunse all’altezza del costume scivolò le mani sul davanti e gli accarezzò l’erezione, facendolo gemere. Si accarezzarono, si strofinarono, si sentirono impazzire di piacere.
“Ti desidero” sussurrò Antonio. “Proviamo a fare all’amore nell’acqua, così non ci potrà vedere nessuno. I bambini sono tranquilli sulla spiaggia, stanno costruendo un castello di sabbia”.
“Ma…amore, sei sicuro che non ci noterà qualche bagnante dalla spiaggia?”.
“Certo, cara, sono tutti intenti a pranzare sotto l’ombrellone, cosa che dopo faremo anche noi, e chi non sta pranzando è a pancia in giù o in sù a prendere il sole… Del resto è più eccitante con un po’ di rischio, non credi? Siamo marito e moglie e, poi, oggigiorno non ci fa caso più nessuno…”.
“Va bene, amore, mi hai convinta, proviamo, non l’abbiamo mai fatto in acqua”.
“Cerchiamo di imitare quelli dei films che abbiamo visto in televisione e vedrai che ce la caveremo. Siamo fortunati perché sappiamo nuotare benissimo entrambi…”.
Scesero in acqua, si accarezzarono, scostarono leggermente i costumi e Maria si attaccò ad Antonio, avvinghiandogli i fianchi con le gambe, proprio come aveva visto fare in quei films. Lui dentro di lei, i movimenti dell’amore erano identici a quelli per restare a galla. Lei si sentiva risucchiare, annullare da lui. Provarono un piacere sempre più forte, sempre più forte, finché esplosero, raggiunsero il culmine, l’orgasmo, insieme ad un gemito che non riuscirono a trattenere. Si strinsero forte. Non avevano preoccupazioni di gravidanze indesiderate: Maria, d’accordo con Antonio, si era fatta applicare la spirale dal suo ginecologo. Per essere la prima volta che facevano all’amore nell’acqua era andata benissimo. E nessuno li aveva visti!
Controllarono che i rispettivi costumi fossero a posto e, nuotando lentamente, di nuovo affiancati, raggiunsero la spiaggia, dove Elisa e Michele, assieme agli altri bambini con cui avevano familiarizzato, avevano ultimato il castello. Stesero per terra gli asciugamani e vi si coricarono sopra per asciugarsi al sole.
Quando furono completamente asciutti andarono, assieme ai bambini, sotto l’ombrellone, dove pranzarono con calma, ascoltando la radio. Poi si coricarono di nuovo al sole, a pancia in giù, dopo essersi spalmati la crema solare, per non scottarsi. Aspettavano di completare la digestione, prima di andare di nuovo a fare il bagno.
“Papà, papà… Ci avevi promesso il gelato”, dissero in coro Elisa e Michele, che prima, concentrati nella costruzione del castello di sabbia, l’avevano dimenticato.
“Oh, che sbadato, me ne ero completamente scordato. Aspettate sotto l’ombrellone, altrimenti prendete troppo sole e vi scottate, mentre io vado a comprare i soliti quattro coni al cioccolato al bar qui sopra. O forse, questa volta, volete cambiare?”.
“No, vanno bene i coni al cioccolato”.
“E per te, cara?” rivolto a Maria, che ora si era messa a pancia in sù.
“Stessa cosa, amore; grazie” rispose lei, collegando tra sé e sé - proprio in quell’istante - il bel sogno d’amore della notte col fatto che avevano fatto davvero all’amore, prima, in acqua…
Il bar era vicinissimo, appena sopra la spiaggia. Antonio calzò i sandali per non scottarsi i piedi sulla sabbia infuocata ed andò in costume, senza vestirsi.
Dopo tre minuti ritornò con i quattro coni, ne tenne uno e distribuì gli altri tre.
Stava tranquillamente gustando il gelato quando, ad un tratto, vide in acqua, ad una cinquantina di metri sulla destra, Silvia, che nuotava spensierata. Fermo nell’acqua bassa, forse perché non sapeva nuotare, con lo sguardo la seguiva un uomo, che Antonio non riconobbe sùbito ma dopo un po’: il marito.
VII

Antonio non riconobbe sùbito il marito di Silvia perché non lo si vedeva mai in giro: era un tipo riservato, non amava stare tra la gente.
Invece riconobbe sùbito lei perché, pur essendo la prima volta in dieci anni che la vedeva al mare, l’aveva vista tante volte passando, casualmente, davanti al suo salone, quando gli era capitato di dover recarsi per motivi di lavoro al paese dove lei risiedeva e lavorava.
D’altra parte, anche se ora lei non gli faceva più nessun effetto, dieci anni prima, appena finiti gli studi, ne era stato pazzamente innamorato, avrebbe voluto sposarla, ma il senso di obbedienza verso i propri genitori gli aveva giocato quel brutto scherzo, portandolo a scambiare quel loro consiglio, quella loro opinione, per un ordine… E così, ignara di tutto, lei si era sposata. E lui aveva soffocato lentamente in sé stesso quel segreto sentimento durante quei quattro lunghi anni, prima di innamorarsi perdutamente di Maria, sua moglie. Ecco perché, adesso, la riconobbe sùbito.
La guardava, incuriosito, mentre lei nuotava calma e tranquilla, vicino alla battigia, dove ora suo marito si era seduto, col viso verso di lei. In quel momento non c’era nessun altro bagnante né in acqua né in piedi sulla spiaggia: erano tutti tranquillamente distesi al sole o sotto gli ombrelloni. Antonio la sentì dire a bassa voce qualcosa al marito, senza capirla a causa del rumore delle onde e della leggera distanza, e sùbito dopo la vide roteare con grazia nell’acqua e dirigersi a nuoto, a grandi bracciate, in direzione di un piccolo scoglio che sbucava un centinaio di metri più in là, nell’acqua alta. Così immaginò che, poco prima, lei avesse detto al marito che avrebbe raggiunto a nuoto quello scoglietto. Era molto veloce, sapeva nuotare benissimo.
Stava rapidamente raggiungendo lo scoglio quando, all’improvviso, forse per un crampo alle gambe, si bloccò ed incominciò ad agitarsi terrorizzata, gridando: “Aiuto! Aiuto! Annego!”.
Immediatamente il marito si mise a gridare disperato: “Salvate mia moglie! Salvate mia moglie! Io non so nuotare!”, dibattendosi goffamente nell’acqua bassa, che gli arrivava fino alle spalle.
Antonio buttò il gelato e accorse verso di lei, saltando a grandi falcate i bagnanti distesi al sole, che, colti di sorpresa, non riuscivano a rendersi conto di cosa stesse succedendo. Silvia era quasi completamente sommersa, non riusciva più neanche a gridare aiuto, era allo stremo delle forze, disperata. Lui si tuffò con tutta la foga della corsa, facendo schizzare l’acqua da tutte le parti, e, nuotando più velocemente che poté, con gli occhi chiusi e la testa quasi sempre sommersa, riuscì a raggiungerla. L’afferrò rapidamente per la mano che ancòra era visibile e la tirò su come un pazzo, con la forza della disperazione, facendole uscire la testa fuori dall’acqua. Era ormai svenuta, aveva bevuto tantissima acqua. Antonio si girò e la trascinò sulla spiaggia per il mento, con la mano sinistra. Lì, accolto dal marito, agitato e felice ad un tempo per il salvataggio in atto, e da un gruppo di bagnanti, finalmente accorsi per portare aiuto, le fece uscire l’enorme quantità di acqua che le era entrata nei polmoni e le praticò la respirazione artificiale.
Silvia, lentamente, iniziò a respirare, a riprendere conoscenza, aprì stancamente gli occhi e poi li richiuse felice, cosciente di essere stata salvata. Il suo corpo infreddolito iniziò a riscaldarsi; il suo bel viso prese colore. Il marito pianse di gioia accanto a lei e farfugliò ringraziamenti sinceri ad Antonio; la gente che s’era raggruppata tutt’intorno lo applaudì ed ammirò per il coraggio, la rapidità e la bravura che aveva appena dimostrato. Il fisico di Silvia, sporco di sabbia fine ed asciutta che vi si era attaccata poco prima, era molto bello. Il costume ed il reggiseno neri, minuscoli, facevano risaltare ancòra di più la femminilità di quel corpo ben curato, che dimostrava molto meno di ventotto anni, l’età vera, che Antonio conosceva perché ricordava da dieci anni prima di passargliene due. Solo alcuni lividi, constatò, causati da chissà cosa, screziavano un po’ la schiena ed i fianchi levigati di Silvia. Quei lunghi capelli neri, sconvolti, su quel corpo caldo, piacevolmente magro, appena rubato alla morte, gli fecero uno strano effetto, si sentì turbato, ora che tutto era calmo e sotto controllo.
Anche se si era risolto tutto per il meglio, ugualmente i presenti consigliarono al marito di portare sùbito la moglie, per scrupolo, dal dottore. Antonio lo aiutò ad alzarla in piedi ed a sorreggerla fino all’autovettura, dato che le tremavano le gambe. Lì, lei lo ringraziò con voce gentile e tremante dall’emozione e il marito gli espresse la propria gratitudine ancòra una volta: “Non c’è motivo per ringraziarmi; sono contento per voi. Mi farò vedere o sentire per informarmi del completo stabilizzarsi della Signora, che vedo ancòra molto tesa”, disse lui. Poi si scambiarono i nomi e si salutarono.
Appena tornò al suo ombrellone, Maria ed i bambini - che avevano assistito ammirati al salvataggio - lo lodarono e lo baciarono commossi perché aveva messo a repentaglio la sua vita per salvare quella di un’altra persona.
Anche Maria sapeva che Silvia faceva la parrucchiera per signora nel paese limitrofo al loro. Però non sapeva affatto che, dieci anni prima, Antonio era stato pazzamente e segretamente innamorato di quella donna, per quattro anni l’aveva idealizzata e poi l’aveva totalmente cancellata dalla propria mente, appena si era, tanto inaspettatamente quanto follemente, innamorato di lei.
Non ne sapeva nulla non perché lui glielo avesse nascosto per malignità, ma semplicemente perché lui stesso l’aveva dimenticata, non provava più nulla per lei. Antonio e Maria erano molto fedeli l’un l’altro. Tra loro non c’erano state, e non potevano esserci, altre persone. L’educazione ricevuta dai rispettivi genitori ed il senso religioso non ammettevano eccezioni.
Ritornarono a casa che era quasi buio.
Quella notte lui ebbe un sonno molto agitato.
Sognò di essere fortemente innamorato di Silvia e di sentire, nello stesso sogno, una pesante sensazione di disprezzo verso sé stesso per il tradimento alla dolce moglie.
“Tradimento” non in senso di atto materiale, di sesso, ma in senso di amare un’altra donna, che non era sua moglie.
La mattina seguente, Antonio non disse nulla a Maria, anche perché se ne vergognava, pur sapendo che era stato soltanto un sogno e che in realtà lui le era davvero fedele, anche col pensiero.
Ma stava accadendo qualcosa nel suo intimo più profondo, qualcosa di cui lui non era cosciente, ma che a poco a poco si delineava, anche se la sua mente rifiutava di avallare, di facilitare, di incoraggiare…
Di lì a pochi giorni divenne molto irrequieto, i nervi gli saltavano per un nonnulla, ce l’aveva con sé stesso, si odiava perché non aveva il coraggio di ammettersi che all’improvviso - dopo dieci anni - si era di nuovo innamorato del suo primo segreto amore: di Silvia!
Ecco, ora che lo aveva ammesso si sentiva molto meglio, assaporava la sublime sensazione di aver raggiunto quella felicità totale che aveva sempre desiderato e che - per motivi a lui ignoti - gli era sempre stata preclusa, sentiva di esser riuscito, finalmente, ad oltrepassare quel limite invisibile ed invalicabile che percepiva legato a lui, proprio perché lui.
Ma fu un lampo, sùbito dopo la sua mente prevalse su quel sentimento perché non era possibile assecondarlo, non era conciliabile con l’attuale grande sentimento d’amore per la moglie.
Ma era davvero amore ciò che provava per Maria? O era soltanto affetto, causatogli, inconsapevolmente, dalla perdita della prima donna di cui si era innamorato? Possibile che ciò che provava intimamente per la moglie era soltanto falso amore? E se sì, perché lo era? Forse perché il grande e sincero amore di Maria non poteva assolutamente essere offeso con sentimenti meno elevati? Forse perché, nella famiglia, col tempo l’amore decade, diventa affetto? O forse perché ciò che non si può essere o avere sembra sempre superiore - per qualche regola non scritta - a ciò che si è o che si ha già?
A tutti questi dubbi, riassumibili nella semplice domanda se amava o non amava davvero sua moglie Maria, Antonio non riusciva a dare una risposta. Si sentiva la testa scoppiare per quell’intimo tormento; ma all’esterno, nulla: come una fredda macchina, la sua mente osteggiava, vinceva, copriva, e lui stesso non se ne rendeva conto. O forse sì? Ma se se ne rendeva conto, allora perché non reagiva? Perché teneva sempre tutto dentro, senza imporsi? O, forse, succedeva questo proprio perché si era inconsciamente imposto?
Passarono dieci giorni; tremendi per Antonio, tranquilli per Silvia, ignara di tutto.
Il dottore l’aveva visitata e le aveva consigliato di concedersi un paio di giorni di riposo. Così lei era rimasta due giorni a casa ed aveva avuto modo di pensare al suo salvataggio, alla sua vita, alla sua famiglia.
Lei, di carattere dolce e gentile, si era sposata, giovanissima, circa dieci anni prima con Orlando, un tipo che si era rivelato poi scontroso e violento, che la picchiava sempre. Non avevano avuto figli. Era molto infelice e sola; per distrarsi si dedicava sempre al lavoro, nel suo salone di parrucchiera per signora.
Pensò ad Antonio, persona che conosceva solo di vista e di nome e che l’aveva salvata. Lo visualizzò nella sua mente, alto, bello, forte, ma anche dolce, gentile, amabile, pensò al modo in cui l’aveva soccorsa, rischiando la propria vita per lei, e alle sue labbra morbide quando le aveva praticato la respirazione artificiale, a quelle mani gentili che l’avevano amorevolmente toccata, carezzata…
Se ne innamorò teneramente, segretamente. Desiderava rivederlo.
Lo aspettava, quel giorno aveva detto che si sarebbe fatto vedere o sentire.
VIII

Infatti, Antonio passò e - per la prima volta in vita sua - entrò nel salone di Silvia, la quale in quel momento era sola perché era quasi ora di chiusura. Lui, che stava provando le pene dell’inferno per lei, si era imposto di non dirle nulla. E così fece, anche se non gli fu facile resistere alla tentazione di confessarle ciò che non aveva mai avuto il coraggio di dirle. Si informò sul suo stato di salute, poi si complimentò per il bel salone e per la sua bravura nel lavoro, di cui aveva sentito parlare fin dall’inizio dell’attività.
Lei lo ringraziò per le attenzioni e per i complimenti, ma non riuscì a nascondere di essere molto triste: l’espressione del viso ed il tono della voce la tradirono.
Lui le chiese come mai era infelice e lei gli raccontò la triste storia della sua vita, premettendo che a chi l’aveva salvata desiderava parlare liberamente. In realtà lo fece perché era innamorata. Gli parlò del suo matrimonio non riuscito, della mancanza di figli, del marito violento, Orlando, che la picchiava spesso e senza motivo.
In quel momento Antonio capì come mai lei avesse quei lividi sulla schiena e sui fianchi, quel giorno, al mare.
“Solo dopo il giorno del salvataggio Orlando non mi ha più picchiata” concluse Silvia sospirando.
Dal modo come si era espressa, egli capì che lei era teneramente innamorata di lui, che, forse, era pronta a tutto.
Ma lui, resistendo a stento alla forte tentazione di abbracciarla stretta e dirle quanto l’amava, tacque.
Con un nodo alla gola, di pianto, di disperazione, la tranquillizzò dicendo: “Silvia, non essere triste. Vedrai che d’ora in poi tuo marito si comporterà bene con te. Credo di potertelo assicurare perché quel giorno, quando ha capito che ti stava perdendo per sempre, ho letto la disperazione nei suoi occhi. Era sincero, ne sono sicuro. Si capisce quando un uomo mente. E lui non mentiva, il fatto stesso che da quel giorno non ti ha più picchiata lo dimostra. Sono contento per te, ti auguro ogni gioia e felicità d’ora in poi”.
Antonio, mentre le diceva quelle parole, riuscì a stento a non piangere di gioia e di dolore contemporaneamente.
Di gioia, perché aveva appena trovato la forza per salvare il suo felice matrimonio con Maria e quello, seppure fino ad allora infelice, di Silvia con Orlando.
Di dolore, perché aveva appena voltato le spalle all’amore sincero di Silvia che, inconsapevolmente, era stata il suo segreto primo grande amore dieci anni prima, per quattro anni, e di cui in quegli ultimi dieci giorni di fuoco si era pazzamente innamorato.
“Grazie, Antonio, per ciò che mi hai appena detto, per il pensiero gentile della visita e, di nuovo, per avermi salvato la vita. Te ne sarò grata per sempre. Vienimi a trovare, se vuoi” disse lei e si salutarono con un tenero abbraccio, che per lui fu come un addio, come perdere un pezzo della propria esistenza. Si sentì un po’ spegnere dentro, nell’intimo più profondo.
Quando ritornò a casa cercò di essere come sempre; non disse nulla alla moglie, non per malignità, ma per non turbarla, per non farla sentire “infelice dentro” come si sentiva lui. Capì che, forse, quell’intimo turbamento che gli impediva di raggiungere la felicità totale, quel limite, quel confine invisibile ed invalicabile che percepiva, dipendevano dal suo inconscio in lotta con la coscienza a causa di quell’amore nascosto, inconsapevolmente desiderato.
Quella notte, assai agitato, impiegò molto tempo per addormentarsi. Sognò di trovarsi sul posto della ginestra in fiore, anzi rivisse con piacere il momento della posa per la foto-ricordo. Poi sognò di pensare a Silvia e di sentirsi rimbombare dolorosamente nella testa, parola per parola, questo grido:

Amore impossibile

Oh, segreto amore mio
quanto vorrei poterti stringere forte a me
e gridarti, come un bimbo felice e spensierato,
quanto ti amo e come ti desidero…
Ma non posso!
Un destino vile e sottile
ci ha divisi lentamente
in questo mare della vita
in cui, nostro malgrado,
ci troviamo a dover lottare,
con tutte le nostre forze,
per non annegare.
Siamo prigionieri della realtà,
di questa crudele realtà
che le ferree regole della morale
non ci permettono minimamente
di affrontare.
Eppur sappiamo che, facendolo,
riconquisteremmo
la nostra tanto desiderata libertà.
E tuttavia non lo facciamo.
Solo con gli occhi,
nei quali ci è dolce specchiarci,
ed il cui brillare ne è
lampante innocente testimonianza,
ci esprimiamo il nostro
reciproco immenso amore nascosto,
che mille parole non potrebbero descrivere.
Un amore grande ed eterno,
forse perché irreale,
forse perché impossibile.


Si turò forte le orecchie con le mani per non sentire più quelle parole che gli stavano facendo scoppiare la testa, che lo stavano facendo impazzire, ma non servì a nulla: era come se non lo facesse affatto, le sentiva ancòra di più, ancòra più profonde.
Allora pensò: “Dio, aiutami, ti prego; solo tu puoi farlo”.
Sùbito gli si formò nella mente l’immagine del dolce viso di sua moglie, Maria, che lo guardava e gli sorrideva gioiosamente, proprio come lui stesso le aveva scritto realmente in quel bigliettino d’amore che le aveva messo nella borsetta quando si erano fidanzati. Poco dopo non sentì più il rimbombo di quelle parole, le vide sparire a poco a poco, nella mente, sotto l’immagine chiara di Maria, che alla fine fu l’unica cosa che rimase. Ed ebbe, nel sogno stesso, una piacevole sensazione di pace, di tranquillità, di felicità.
Il giorno dopo, quando si svegliò, la moglie gli disse: “Amore, stanotte ho fatto un sogno brevissimo, che mi ha un po’ turbata”.
“Oh, mi dispiace, cara. Ma dimmi, cos’hai sognato?”.
“Ho sognato di ritrovarmi, improvvisamente, sola, con i bambini: tu non c’eri, avevo l’impressione che fossi partito, a mia insaputa, per un lungo viaggio. Ero disperata; ad un tratto, nella mia mente, ho sentito la tua voce, lontanissima, gridare tre volte “Tornerò”. Poi il sogno si è interrotto e non ho più sognato nulla”.
“Cara, non pensarci più. Sarà dipeso dalle preoccupazioni finanziarie..” la tranquillizzò, ed aggiunse: “A proposito, vado un attimo in banca per quella telefonata del direttore…”.
“Sì, stavo giusto per ricordartela”.
La banca, l’unica del paese, era vicina; perciò uscì a piedi. Mentre andava, incontrò tanti amici e scambiò qualche battuta. Passò dall’edicola, anche quella l’unica, ed acquistò, come sempre, il giornale preferito, per tenersi informato sui fatti del giorno.
Ci aveva sempre tenuto per l’informazione e, quando, per qualche motivo, non riusciva a leggere si sentiva strano, tagliato fuori dal mondo.
Stava arrivando, intento a scorrere i titoli, quando, improvvisamente, fu investito dalla potente auto di alcuni rapinatori che scappavano come pazzi, avendo appena svaligiato la banca. Non si fermarono neppure. Lui, scaraventato da un lato, batté violentemente a terra con la testa, entrando in coma.
Fu immediatamente soccorso e portato all’ospedale della vicina città, dove i medici lo portarono sùbito in sala operatoria per sottoporlo ad un difficilissimo intervento chirurgico alla testa. Ma non c’erano molte speranze, purtroppo era ad un passo dalla morte.
Solo un miracolo poteva salvarlo.
IX

Maria, informata telefonicamente dell’accaduto dall’ospedale stesso, per poco non svenne dal dolore. Sentì una fitta al cuore ed un intenso calore dentro tutto il corpo. La testa le scoppiava per il dispiacere. Tremava tutta. Non riusciva a muoversi. Si sentiva persa, annullata, distrutta. Sentì che tutta la sua felicità, la sua vita, la sua famiglia, erano finite e desiderò di morire.
Poi, vedendo piangere disperatamente i bambini, Elisa e Michele, dolci creature che lei ed Antonio, col loro amore, avevano messo al mondo e delle quali andavano orgogliosi, si calmò un po’ e li strinse forte a sé dicendo: “Bambini, creature mie, non piangete più. Vedrete che presto il papà guarirà”.
In quel preciso istante le tornò in mente il sogno della notte, ricordò che per tre volte la voce del marito, lontanissima, le aveva gridato “Tornerò”. Si aggrappò disperatamente alla speranza che quel sogno si avverasse, che Antonio tornasse, che uscisse dal coma. Quel filo di speranza, quei tre “Tornerò”, quell’altro sogno di undici giorni prima in cui lui era ritornato da un viaggio lontano e le aveva pronunciato quelle bellissime parole d’amore, animarono Maria, le diedero una grande forza. Affidò i bambini a sua madre, la nonna Concetta, sùbito accorsa, che li portò a casa sua per prendersene cura, aiutata anche dalla madre di Antonio, la nonna Elisa. Poi andò sùbito in ospedale, intenzionata a vegliare accanto al lettino del marito, a prendersi cura del suo corpo immobile, ad aspettare il suo ritorno alla vita.
Si avvicinò alla sala operatoria e cercò di sapere qualcosa dal primo dottore che ne uscì: “Dottore, mi scusi, sono la moglie del paziente che state operando… Mi dica se c’è qualche speranza di salvarlo, la prego, sia sincero; so che è in coma…”.
“Signora, mi dispiace, non posso dirle nulla più di quanto lei non sappia già… L’intervento chirurgico in corso, che durerà ancòra molto, è necessario, ma non dà molte speranze… Stiamo facendo del nostro meglio. Appena ci sarà qualche novità, la informeremo. Intanto cerchi di stare calma, vada ad accomodarsi in sala d’attesa”.
“Grazie di tutto, Dottore” rispose lei e andò nella sala, dove di lì a poco arrivarono parenti ed amici per informarsi sulle condizioni di Antonio.
Il tempo, che in genere vola, sembrava non passasse mai, come se si fosse fermato. L’attesa era snervante. Maria alternava momenti di scoramento ad altri di grande speranza. Sapeva che Antonio, il suo grande amore, l’unico uomo della sua vita, era ad un passo dalla morte, stava lottando con essa… Sapeva che poteva perderlo per sempre da un momento all’altro e non riusciva neanche solo ad immaginare di poter vivere senza di lui. Lui per lei era tutto, era la sua vita, la sua fantasia, proprio come gli aveva scritto in quel bigliettino d’amore, sei anni prima. Probabilmente, anche lei lo era per lui; non aveva mai avuto motivo per dubitarne, era sempre stata amata e rispettata. Nei due anni di fidanzamento e nei quattro di matrimonio già trascorsi non avevano mai litigato. Pensò al bigliettino che lui le aveva infilato di nascosto nella borsetta quando si erano fidanzati e che lei teneva conservato amorosamente, come ricordo. Rammentò le ultime due righe di quella poesia: “e non ci sarà avvenimento alcuno, voluto o casuale, che distaccarmi potrà da te” e si commosse per il profondo significato che esse assumevano in quel particolare momento: la morte, contro cui ora Antonio stava lottando, non lo avrebbe distaccato da lei. Il suo grande amore per lei sarebbe rimasto intatto.
Questi pensieri fecero venire un groppo in gola a Maria. Avrebbe voluto piangere, ma non ci riuscì. Il dolore l’aveva impietrita.
Nella sua mente rivisse alcuni momenti di quei sei anni vissuti assieme: la dichiarazione d’amore di Antonio, la posa perla foto accanto alla ginestra in fiore, il giorno del matrimonio, la prima notte d’amore, la nascita di Elisa e Michele…
E adesso che mancavano poco più di due mesi al loro quarto anniversario del matrimonio era tutto appeso ad una speranza, all’avverarsi di quei sogni…
L’intervento chirurgico si protrasse fino a sera, quando finalmente arrivò in sala d’attesa il dottore, che informò: “L’intervento chirurgico è appena terminato ed è tecnicamente riuscito. Purtroppo non sappiamo se e quando il paziente uscirà dal coma, che, purtroppo, è profondo”.
“Ma c’è speranza? La prego, Dottore, me lo dica” chiese Maria, con tono preoccupato.
“Sì, c’è una sia pur minima speranza”.
“Grazie, Dottore”.
“Adesso il paziente è stato sistemato nel reparto di rianimazione, sotto stretta sorveglianza medica”.
“Possiamo vederlo?”.
“Sì, ma non tutti. Lei, che è la moglie, se vuole, può restare a vegliare accanto al suo lettino”.
“Certo, resterò” disse lei ed aggiunse: “Vegliare accanto al suo lettino è l’unica cosa che adesso posso fare e la farò”.
Sùbito saluto e ringraziò i parenti e gli amici che le avevano tenuto compagnia nella sala d’attesa per tutto il tempo e, guidata dal dottore, andò da Antonio.
Lui era immobile, disteso sul lettino. Era pallido, completamente nudo, semicoperto da un lenzuolo; aveva la testa fasciata e tanti tubi e tubicini al naso. Gli occhi e la bocca erano serrati. L’unico segno di vita era la respirazione, molto lenta e silenziosa.
La vita del mio amore, pensò Maria tra sé e sé, dipende da quei tubicini…
“Mi raccomando, Signora. Si sieda su quella sedia a sdraio accanto al lettino e non tocchi nulla” disse il dottore ed uscì.
Lei obbedì. Il viso di Antonio - quasi irriconoscibile - le veniva proprio di fronte. Lo osservò a lungo. Ella, che non aveva mai visto una persona in quelle condizioni, era preoccupatissima perché si rendeva conto quanto fosse labile, sottile il confine tra la vita e la morte in quel momento per suo marito. Anzi, doveva faticare per riuscire ad immaginarlo vivo, per continuare a credere che c’era ancòra una sia pur labilissima speranza.
“Dio mio, ti prego, salvalo, ridagli la vita” ripeteva tra sé e sé e pregava in silenzio, affinché Lui l’ascoltasse e le facesse il miracolo.
X

Antonio, assolutamente inconsapevole di cosa gli fosse successo, entrò - senza accorgersene minimamente - in una diversa realtà, che però percepì come quella di sempre. Nello stesso momento in cui batté violentemente a terra con la testa si trovò che stava tranquillamente parlando coi propri genitori del suo dolce sentimento per Silvia. Aveva circa vent’anni e si era da poco diplomato geometra.
“Mamma, papà, sono innamorato di Silvia, una bella ragazza che fà la parrucchiera per signora nel vicino paese. Lei non ne sà niente, ma mi piace molto: è alta e magra come me, ha i capelli lunghi e neri, le passo due anni. Si è messa a lavorare da poco, però è in gamba: ha un mucchio di clienti. Vorrei fidanzarmi con lei, credo di piacerle anch’io. Voi cosa ne pensate?”.
“E’ troppo presto…” rispose il padre dopo un po’.
“Probabilmente, dato che sei troppo giovane e che hai appena finito gli studi, ti conviene prima cercare un buon posto di lavoro…” aggiunse la madre, con il solito tono affettuoso e premuroso.
“Non avere fretta, per quella cosa c’è sempre tempo” conclusero sorridendo entrambi.
“Avete ragione” rispose Antonio e la conversazione finì.
Ma, forse per motivi inconsci, dopo un po’ decise di non ascoltare interamente quel consiglio, nel senso che avrebbe sì cercato il posto di lavoro, però - contemporaneamente - avrebbe confessato a Silvia il suo amore.
Così iniziò ad andare spesso in paese a gironzolare di fronte al salone mentre lei era dentro a lavorare, facendo di tutto per farsi notare. L’aspettava all’apertura ed alla chiusura per parlarle, per attirare la sua attenzione… E lei gli dava retta, scherzava, rideva, accettava i complimenti, si lasciava corteggiare.
Antonio capì che anche lui le piaceva molto e decise di non perdere troppo tempo prima di farle la dichiarazione, anche perché lei, parlando, aveva lasciato intendere che desiderava fidanzarsi e sposarsi sùbito. Però, prima di parlarle, decise di dedicarsi un po’ di tempo a cercare il lavoro.
In tre o quattro giorni interpellò tutte le imprese edili della zona, ma non trovò nulla di concreto, solo vaghe promesse e tanti “Ci dispiace, il geometra l’abbiamo già”.
L’unica risposta interessante, perché più concreta, fu quella del titolare di una piccola ditta edile dell’altro paese limitrofo, che gli aveva detto: “Il geometra mi servirà fra sei mesi, quando inizierò ad eseguire dei lavori di lunga durata, che ho appena preso in appalto. Se per quella data non avrai trovato di meglio, posso garantire - dato che mi piaci - che ti assumerò a tempo indeterminato”.
Ritornato, un pomeriggio, a gironzolare davanti al salone, trovò una sorpresa fastidiosa: un altro giovane, più grande di lui, corteggiava Silvia! Intraprendente e deciso, costui, sfruttando l’occasione di un momento in cui non c’era gente, entrò persino nel salone e si mise a parlare ed a scherzare con lei. Poi arrivarono delle clienti, alcune ricche signore tutte agghindate e truccate, e lui uscì, salutando con modi gentili.
Antonio, avendo appena visto con quanta grazia Silvia aveva scherzato e riso, fu assalito da un grande senso di odio verso sé stesso e verso quel giovane. Verso sé stesso, perché non aveva confessato sùbito il suo amore a Silvia, perché non l’aveva corteggiata in quei tre o quattro giorni, anzi non si era proprio fatto vedere o sentire. “Te lo sei meritato, cretino!” si ripeté tra sé e sé, con disprezzo e rabbia. Verso quel giovane, perché aveva osato portargli via la sua donna, il suo amore: “Lo odio! Lo odio!” pensò, andandogli incontro con i nervi a fior di pelle.
“Ehi, tu, come ti sei permesso?” chiese con voce secca.
“Cosa?”, domandò quello con tono meravigliato, sorpreso, incredulo.
Non ragionava affatto, dimenticava che la “sua” ragazza, Silvia, non sapeva proprio nulla del suo amore.
“Ma cosa vai dicendo?” rispose, seccato, l’altro e gli diede una spinta con la mano, come per dirgli “Scostati, lasciami passare”.
Ma Antonio, ormai cieco per l’ira, gli tirò un pugno sul viso. Quello lo evitò scostandosi su un lato e sùbito lo assalì con ferocia. Essendo più grande e più robusto, ebbe la meglio. Lo riempì di pugni al viso e di calci sullo stomaco con la furia di un pazzo scatenato. Il povero Antonio non ebbe neanche il tempo di difendersi o di gridare aiuto, fu letteralmente travolto da quell’indemoniato, che era proprio deciso ad ucciderlo. Cadde a terra, come morto, mentre quello, urlando, continuava a massacrarlo.
Silvia, appena si era accorta di cosa stava succedendo, era uscita dal salone gridando: “Aiuto! Aiuto!”. Fortunatamente per Antonio, arrivarono sùbito alcuni uomini, attirati dalle grida disperate di lei e dagli urli inferociti di quel pazzo, che stava per fracassargli la testa con un piede. Lo bloccarono immediatamente, ma riuscì a divincolarsi e scappò via urlando.
Silvia si avvicinò al povero corpo di Antonio, che giaceva a terra svenuto, col viso in sù coperto di sangue, quasi irriconoscibile. Gli occhi erano gonfi, neri, le palpebre serrate. Del sangue fuoriusciva dal naso e dalla bocca semiaperta.
Sembrava morto, tanto era immobile; l’unico segno di vita era il rumore irregolare del suo respiro, causato dal sangue che intasava le vie respiratorie.
“Chiamate un dottore! Chiamate un dottore!” gridava disperata, mentre col fazzoletto cercava di pulire quel viso insanguinato.
Dopo un po’ il fazzoletto era tutto rosso porporino. Gliene porsero un altro e lei ricominciò ad asciugare dicendo: “Ma perché, perché è successo questo?”.
Non riusciva a capire come mai Orlando, il giovane che aveva massacrato Antonio, si fosse comportato così, scoprendo tutta la violenza e l’arroganza che si nascondevano sotto i suoi modi gentili. “Ed io, stupida, per poco non mi fidanzavo con quel pazzo!” pensò Silvia tra sé e sé, decidendo in quel preciso momento la risposta che ancòra non gli aveva dato.
Orlando, infatti, tre giorni prima le aveva fatto la dichiarazione d’amore, chiedendole di fidanzarsi con lui. E lei, che lo conosceva da circa tre anni, cioè da quando aveva iniziato a frequentare il corso di formazione per parrucchieri, sùbito dopo aver conseguito la licenza media, si era presa un po’ di tempo per la risposta. Questi, che abitava in un paese limitrofo, aveva sette anni più di lei e, da quando ella aveva finito il corso e si era messa a lavorare, l’aveva telefonata spesso di sera, facendole la corte. E lei si era lasciata corteggiare sia perché Orlando le piaceva: alto, biondo, robusto, bello, sia perché aveva modi gentili, lavorava ed aveva molti soldi.
“Se mi dirai di sì” le aveva detto “comprerò quella casa in vendita vicino al tuo salone e ci sposeremo sùbito”. E, a lei, che aveva sempre desiderato sposarsi presto, non occorreva sentire altro. Gli avrebbe risposto di sì, anche perché Antonio - aveva pensato - dal quale si era lasciata corteggiare perché le piaceva più di Orlando ed al quale aveva fatto capire che desiderava sposarsi sùbito, anche per spingerlo a dichiararsi, si era, invece, dileguato negli ultimi quattro giorni.
Ella non immaginava che lui si era soltanto assentato per cercare un lavoro, prima di farle la dichiarazione, con l’intenzione di sposarla sùbito. Ed ora era lì, per terra, svenuto… Lei, chinata su di lui, gli passò amorosamente il fazzoletto sulla fronte, scostando i capelli, intrisi di sangue.
Si rese conto di amare Antonio sin da quando lui aveva iniziato a corteggiarla, a gironzolarle attorno. Era proprio per questo motivo che non aveva dato sùbito la risposta ad Orlando ed aveva preso tempo. E ciò si era rivelato assai utile, si ammise, perché le aveva permesso di scoprire il vero carattere di Orlando: violento, arrogante, prepotente… Sì, ora ne era certa, Orlando non era il suo tipo, non poteva amarlo ora che lo conosceva davvero.
“Ma quando arriva questo dottore!?” gridò Silvia, osservando Antonio con un misto di amore e preoccupazione.
Erano passati solo pochi minuti da quando qualcuno era corso a chiamarlo, ma a lei sembravano ore.
“Largo, largo, lasciatemi passare, sono il dottore!”.
“Finalmente, si affretti, Dottore!” esclamò con un sospiro di sollievo.
Il dottore si chinò su Antonio e gli tastò i polsi. “Fortunatamente è soltanto svenuto” disse poi a Silvia, che era sempre china, ed aprì la borsa che aveva poggiato per terra. Lo visitò più accuratamente, ascoltò con calma il battito cardiaco con lo stetoscopio, dopo essersi fatto aiutare da lei a scoprirgli il petto, gli asciugò il viso, lo disinfettò e lo medicò, applicandogli dei cerotti di garza.
Alla fine gli fece una puntura, sempre con l’auto di Silvia, e disse: “Niente paura, fra poco riprenderà i sensi. Però dovrà essere trasportato sùbito all’ospedale sia per accertare che non abbia fratture od emorragie interne sia per le ulteriori cure. Lei è una sua parente?”.
Avendo constatato con quanta cura e preoccupazione quella ragazza aveva prestato soccorso, si aspettava una risposta affermativa.
Silvia stava per rispondere di no, e ciò era la verità, ma poi disse: “Sì, Dottore, è un mio cugino”.
Si guardò intorno, vide l’automobile di Antonio, una Fiat 127 rossa, a benzina, che era parcheggiata lì vicino col vetro dello sportello di guida abbassato. Saltò a controllare: le chiavi erano inserite.
“Qualcuno sà guidare?” chiese ai presenti.
“Sì, io!” risposero in tanti.
“Bene! Uno di voi farà da autista, dato che io non sò guidare; non ho la patente” e aggiunse: “ Per favore trovate una coperta e mettetela sui sedili posteriori di quest’automobile”.
Qualcuno si precipitò a prenderla.
Poco dopo, con la massima cautela, quattro o cinque persone, guidate da lei, presero il corpo di Antonio, ancòra svenuto, e lo distesero, faccia in sù, dal lato del sedile del passeggero, con le gambe ripiegate, altrimenti non c’entrava, sui sedili posteriori dell’autovettura.
“Un minuto!” disse Silvia all’autista, un certo Angelo. Corse al salone, si scusò con le clienti e, fattele uscire, chiuse il portone.
Poi, rivolta ai presenti: “Per cortesia, avvertite i miei genitori che sono andata all’ospedale per il motivo che sapete”.
Ringraziò e s’infilò nell’auto, che partì veloce in direzione della vicina città, dov’era l’ospedale.
Si era seduta sul sedile del passeggero anteriore, però rivolta all’indietro, per tenere d’occhio Antonio, per evitare che prendesse colpia a causa delle curve e della velocità. Gli teneva le mani nelle sue e lo guardava nel viso che, medicato, era più riconoscibile. Antonio non perdeva quasi più sangue.
“Spero che non abbia fratture o emorragie interne” stava dicendo Silvia, quando egli si riprese.
“Dove sono? Cosa è successo?” chiese con voce rauca.
“Oh, sia ringraziato Iddio, finalmente ti sei ripreso. Eravamo molto in pena per te” rispose lei, comprendendo anche l’autista con un gesto. Poi continuò: “Orlando, un pazzo violento che il dottore ha già provveduto a denunciare ai carabinieri, ti stava massacrando di botte. Fortunatamente vi ho visti litigare dal salone, ho gridato aiuto, sono accorsi degli uomini e lo hanno bloccato giusto un attimo prima che ti…fracassasse la testa con un piede. Poi è riuscito a divincolarsi ed è scappato via”.
“Oh, adesso rammento. Ti ringrazio, Silvia, mi hai salvato la vita”.
“Non devi ringraziarmi di nulla. Anzi, sono io che devo ringraziare te”.
“Tu dovresti ringraziare me? E perché?”, con tono assai sorpreso.
“Perché…”, si bloccò. “Te lo dirò quando starai meglio. Adesso non devi affaticarti. Ma dimmi, come mai quel bruto ce l’aveva con te?”.
“Perché…”, si bloccò anche lui. “Te lo dirò poi”.
“E così siamo pari” disse lei sorridendo ed aggiungendo: “Sono felice per te, perché vedo che - nonostante tutto - sei di buon umore”.
Lei non poteva saperlo, ma lui era contento perché il vederla accanto gli permetteva di sperare di non averla persa, di essere ancòra in tempo per confessarle il suo amore.
XI

Impiegarono non più di mezz’ora per arrivare all’ospedale.
Silvia e due infermieri del pronto soccorso aiutarono Antonio a scendere dall’automobile e lo sorressero, dato che ora camminava con le sue gambe, fino alla sala dei dottori, che lo controllarono sommariamente e lo ricoverarono per gli accertamenti.
Lei gli chiese il numero di telefono di casa ed avvertì i genitori dell’accaduto, raccomandando loro di non preoccuparsi perché il figlio stava bene e presto sarebbe stato dimesso.
Ma loro si preoccuparono ugualmente e, accompagnati da un vicino di casa, dopo un’oretta, arrivarono in ospedale. Salirono al reparto e trovarono Antonio disteso sul lettino, tranquillo, con il viso medicato. Stava parlando con Silvia e con Angelo. Corsero ad abbracciarlo commossi; poi, vedendolo allegro, si tranquillizzarono.
“Mamma, papà, questa è Silvia e questo è Angelo”, indicandoli con una mano. Sorrise ed aggiunse: “Mi hanno soccorso”.
Poi, rivolto a loro: “Silvia, Angelo, questi sono i miei genitori: papà si chiama Michele e mamma si chiama Elisa”.
“Piacere! “Piacere!” si dissero, sorridendo, i quattro mentre si stringevano le mani.
“Grazie di cuore per ciò che avete fatto per nostro figlio” disse poi il padre.
“Ma di nulla!” risposero contemporaneamente Silvia ed Angelo.
“Raccontateci che cosa è successo, per favore” chiese la madre, rivolgendosi ad entrambi, ed essi sùbito l’accontentarono.
“Siete stati in gamba” si congratulò. Poi, rivolgendosi affettuosamente a Silvia: “Lo sai che non molto tempo fa, se ricordo bene, questo nostro figlio ci ha parlato molto bene di te?”.
“Ah, sì? Grazie!” rispose Silvia, arrossendo. “E cosa vi ha detto?” stava per chiedere, ma si trattenne all’ultimo momento.
“Ho sistemato la tua auto nel parcheggio dell’ospedale” disse Angelo ad Antonio, poco dopo.
“Ah, bene. Lasciamola lì per quando Antonio sarà dimesso. Vi facciamo accompagnare in paese dal nostro vicino di casa, che ci sta aspettando giù” intervenne il padre.
“Per noi va bene” rispose Angelo, porgendo le chiavi ad Antonio, che le conservò nel cassetto del comodino.
Lo salutarono, dicendo che sarebbero ritornati a trovarlo presto, e se ne andarono tutti e quattro assieme.
Era già sera. Salirono sull’auto e si avviarono. Quando arrivarono, i genitori di Antonio fecero scendere un attimo Silvia ed Angelo a prendere un caffè a casa loro, in segno di affetto, di gratitudine, di amicizia. Poi il vicino li accompagnò in paese.
I genitori di Silvia, tranquilli perché informati, appena rientrata le chiesero incuriositi: “Come sta tuo cugino?”.
“Sta bene, si è ripreso ed ora è rimasto ricoverato per gli accertamenti del caso. Ma non è mio cugino. Ho raccontato questa piccola bugia al dottore quando mi ha chiesto se ero una parente; i presenti mi hanno sentita e ci hanno creduto”.
“E chi è, allora?” chiese sua madre.
“E’ un amico, un conoscente molto simpatico, è bello, è geometra, si è diplomato da poco, abita in campagna, conosco anche i suoi genitori, li ho conosciuti stasera, mi hanno voluto offrire per forza il caffé in segno d’amicizia, di riconoscenza. Volevano anche farmi restare a cena. E’ una famiglia di brava gente…”.
“Basta, ci hai sommersi di parole” disse sorridendo il padre. “Però non ci hai ancòra detto come si chiama…”.
“Avete ragione… Si chiama Antonio”.
Dal tono della voce e dall’emozione con cui aveva parlato, i genitori intuirono che lei si era innamorata di quel giovane, per loro ancòra sconosciuto.
Silvia si addormentò felice, sia perché aveva capito in tempo che Orlando non era fatto per lei e sia perché Antonio non si era affatto dileguato.
Egli, rimasto solo, telefonò sùbito ai carabinieri e spiegò loro che non desiderava affatto denunciare quel pazzo violento, Orlando, in quanto si era reso conto di averlo provocato lui, tirandogli quel pugno in viso. “Quando lo prendete, fategli solo capire bene che ha esagerato…” concluse.
Poi si addormentò, stanco ma contento, pensando a Silvia, al suo bel viso quando si era ripreso nell’auto, al possibile motivo per cui lei doveva ringraziarlo.
“C’è qualcosa che non va, Dottore?” chiese, preoccupato, due giorni dopo, mentre questi osservava in silenzio le sue radiografie.
“No, è tutto a posto”. Sorrise e sùbito aggiunse: “Però cerchi di non litigare mai più. Non sempre si è fortunati”.
“Certo, Dottore”.
Intuendone il pensiero, il dottore riprese: “Un altro paio di giorni e poi potrai tornare a casa”.


Antonio, non avendo più visto Silvia, la quale - nel frattempo - si era liberata di Orlando, era impaziente.
“Come sta il mio ammalato?” si sentì chiedere mentre stava inutilmente cercando di addormentarsi in quel caldo pomeriggio.
Aprì gli occhi di colpo: era lei, che si sedette sul suo lettino.
“Bene, grazie! Tra un paio di giorni mi dimettono: è tutto a posto. Vedo che hai mantenuto la promessa di venire a farmi visita. Ti ringrazio”.
“Non devi ringraziarmi. Torno a dire che, caso mai, sono io che dovrei ringraziare te”.
“Siamo alle solite. A proposito di dire e non dire, di ringraziare e non ringraziare, mi dici ciò che stavi per dirmi due giorni fa, in auto, mentre mi portavi qui?”.
“Ora che ci penso, anche tu stavi per dirmi qualcosa…”.
“Sì, ma inizia tu, voglio essere cavaliere!”.
“Ti fa comodo, stavolta, essere cavaliere, eh? Ti accontento perché allora la domanda l’avevi fatta per primo: mi avevi chiesto perché dovevo ringraziarti. Ebbene, devo farlo perché è solo grazie a te che non ho commesso un errore di cui poi mi sarei pentita amaramente…”.
“Che errore?” chiese incuriosito Antonio, mettendosi più comodo sul lettino.
“L’errore di fidanzarmi con Orlando, quel pazzo scatenato, violento, che io conoscevo da tempo, ma di cui mai avevo capito quale fosse il vero carattere, nascosto sotto quei modi gentili e premurosi… Sarebbe stato l’errore più grave della mia vita! Gli ho risposto di no. E adesso che ti ho detto tutto”, concluse, “parla tu”.
“Dunque, vediamo, tu mi avevi chiesto come mai quel bruto, Orlando, ce l’avesse con me. Ebbene, se devo esser proprio sincero, e voglio esserlo, ero stato io a provocarlo. L’ho anche detto, telefonicamente, ai carabinieri. Solo che lui ha reagito in quel modo esagerato…”.
“Ah, sì? E perché l’avevi provocato? Cosa gli avevi fatto o detto per farlo partire in quel modo?” chiese Silvia incredula, in quanto non sapeva immaginarsi Antonio come uno sciocco provocatore.
“Gli avevo tirato un pugno sul viso, che lui riuscì ad evitare scostandosi su un lato…”.
“E perché glielo avevi tirato?”. Silvia era sempre più sorpresa dello strano comportamento di Antonio, che aveva sfidato una persona più grande e più forte di lui, senza valutarne i rischi. E aggiunse: “Per come ti conosco io, per comportarti così irresponsabilmente avrai avuto senz’altro un buon motivo, qualcosa che ti ha fatto perdere le staffe…”.
“Ebbene sì, non ridere di me, ma in quel momento non ho più ragionato: il motivo, quel qualcosa…eri tu! Sì, proprio tu!”. Si fermò un attimo, poi aggiunse: “Perché temevo ti avessi persa, proprio quando ero venuto per confessarti il mio amore, per chiederti di fidanzarti con me, per chiederti di sposarmi. Infatti, appena avevo capito che desideravi sposarti sùbito, mi ero dedicato per tre o quattro giorni a cercare un lavoro, senza farmi vedere. Ciò per dichiararmi a te con un lavoro assicurato, eliminando il rischio di un “No” perché disoccupato. Non sto scherzando, avevo già parlato di te ai miei genitori…”.
“Ah, allora era a questo che si riferiva tua madre quella sera che ci siamo conosciute…” disse lei; poi aggiunse: “E pensare che ero convinta che ti fossi dileguato per paura del matrimonio. Che stupida sono stata!”.
“Allora vuol dire che anche tu mi ami?”.
“Certo, sciocchino, non l’avevi ancòra capito?” rispose ridendo, e si abbracciarono stretti, mentre lui la baciò felice sulle guance.
Poi lui, con tono serio, disse: “Ti avverto che, attualmente, sono un geometra disoccupato. Però ancòra per poco: tra sei mesi, il titolare di una piccola ditta edile del paese limitrofo ha garantito di assumermi a tempo indeterminato. Naturalmente, mi ha detto che nel frattempo sono libero di cercare qualcosa di meglio…”.
“Ottimo, Antonio, ottimo. E poi, non dimenticare che io già lavoro e guadagno bene. Perciò non crearti problemi per il lavoro. Piuttosto dimmi cosa pensano di me i tuoi genitori, dato che ne avevi già parlato con loro”.
“A dir la verità, su di te non si erano pronunciati affatto, anche perché fino a due giorni addietro non ti conoscevano. Avevano soltanto detto che, forse, era troppo presto. Ma, adesso che ti hanno conosciuta, sicuramente avranno cambiato idea, saranno d’accordo con me”.
“Hai ragione, ho l’impressione di esser loro piaciuta molto. Figurati che due sere fa, a me e ad Angelo, l’autista che aveva guidato la tua autovettura, hanno voluto per forza offrire il caffé a casa tua, in segno d’amicizia. Volevano anche farci restare per cena! Così ora conosco già tutta la tua famiglia: sono brave persone, l’ho detto anche ai miei genitori la sera stessa, appena rientrata”.
“Ai tuoi genitori? Non dirmi che sanno già di noi?”.
“No, hanno solo intuito il mio debole per te dal modo come ne ho loro parlato. Sanno che ti chiami Antonio. Sono sicura che anche tu farai loro una buona impressione”.
“Ma dimmi”, chiese Antonio, “con chi sei venuta in città, dato che non hai la patente?”.
“Con Eugenia, una mia amica che ha l’automobile ed è scesa per fare spese. A proposito, devo scappare perché sono già le 17.30 e mi starà aspettando per rientrare”.
“Allora non ti intrattengo oltre” rispose lui ed aggiunse: “Appena mi dimetteranno verrò da te e decideremo assieme il giorno del matrimonio, sò bene che desideri sposarti sùbito. Anch’io, del resto”. E si salutarono con un piccolo bacio sulla bocca.
Antonio, rimasto solo, constatò tra sé e sé com’erano stati rapidi, lui e Silvia, quel pomeriggio: si erano salutati da amici, all’inizio della visita, e da promessi sposi, alla fine della stessa! Era felice, tranquillo, si addormentò poco dopo.
Il giorno seguente tornarono a fargli visita i genitori, portandogli da casa un sacco di roba da bere e da mangiare: succhi di frutta, formaggio, sopressata, frutta di stagione…
“Ehi mamma, papà, mi avete portato tanta di quella roba come se dovessi restare ancòra qui per delle settimane! Per telefono vi avevo detto che, probabilmente, domani mi dimettono”.
“Antonio, non preoccuparti, pensa solo a rimetterti in forze” disse la madre con tono affettuoso.
“Mamma, papà, ditemi che impressione vi ha fatto Silvia. Sapete, ieri pomeriggio è venuta a trovarmi, ha mantenuto la promessa di quella sera, e mi ha parlato molto bene di voi, le siete piaciuti”.
“Figliolo”, dissero entrambi, “è una bella ragazza, gentile, simpatica, rispettosa, lavoratrice… Forse, quando ti abbiamo risposto che era troppo presto, ci siamo sbagliati”.
“Non preoccupatevi, devo dirvi una cosa che ancòra non sapete: ieri pomeriggio ci siamo fidanzati e lei mi ha anche confessato di essere da tempo innamorata di me”.
“Bene, Antonio, siamo molto contenti” dissero entrambi e lo abbracciarono con affetto.
“E per il lavoro?” chiese, poco dopo, il padre.
“Silvia già lo sa; a voi ancòra non l’avevo detto; se non trovo di meglio nel frattempo, fra sei mesi ho la garanzia di essere assunto, come geometra a tempo indeterminato, da una piccola ditta edile del paese vicino casa nostra. E poi, siamo facilitati perché Silvia già lavora e guadagna bene”.
“Bene, allora a quando il matrimonio?”, di nuovo il padre, sorridendo.
“Molto presto, papà. Silvia ha sempre desiderato sposarsi sùbito e voglio accontentarla. Appena esco da quest’ospedale vado da lei e stabiliremo tutto”.
“Adesso ti salutiamo perché siamo scesi in città col pulman ed è quasi l’ora per prendere quello del ritorno” e se ne andarono felici.
Durante il pomeriggio, Antonio ricevette la visita di Angelo.
“Ed anche tu hai mantenuto la parola; grazie della visita” gli disse, sorridendo, quando si congedarono.
“Sai, ero di passaggio…”.
Il giorno dopo, a mezzogiorno, Antonio poté lasciare l’ospedale, rientrando a casa con la sua Fiat 127. Pranzò in fretta e telefonò a Silvia per avvisarla che stava andando da lei. Dopo un po’ era già lì. Fece la conoscenza dei suoi genitori, da lei già informati del fidanzamento: erano molto contenti e cordiali.
Poi i due innamorati uscirono e, mano nella mano, andarono a sedersi su una panchina nella villetta del paese. C’erano molti alberi, che proiettavano una deliziosa ombra, tante aiuole pulite, ben curate, piene di fiori, un gran tappeto verde, continuamente innaffiato, la fontana a zampillo, il monumento ai Caduti, tanti colombi che svolazzavano tutt’intorno.
La villetta era proprio idilliaca, sembrava fatta apposta per accogliere i due fidanzati, seduti vicino alla fontana, circondati da colombi intenti a beccare le briciole di pane, che un bambino aveva lasciato cadere volutamente, poco prima. Antonio teneva amorevolmente un braccio sulle spalle di Silvia ed entrambi osservavano quei colombi, ascoltavano il rumore tranquillo e ripetitivo dello zampillo, ignoravano i passanti.
Silvia era molto sexy, indossava una piccola camicetta rosa e dei pantaloni di cotone, bianchi, sottili e molto attillati, tanto da modellarla. Da sotto le ascelle si intravvedeva il reggiseno di pizzo bianco.
Antonio era pazzo di lei, gli piaceva tantissimo quel suo fisico provocante. Il solo pensiero di tenerla vicina, di poterla abbracciare, baciare, stringere, lo faceva eccitare.
La stessa cosa provava Silvia nei suoi confronti: era cotta di lui.
Nonostante il forte desiderio reciproco, decisero di non avere rapporti sessuali per mantenersi puri per il matrimonio. Erano entrambi religiosi e volevano arrivarci vergini. “Non precorriamo i tempi” si dissero.
Stabilirono di sposarsi fra sette mesi, in modo che nel frattempo Antonio sarebbe stato assunto dalla piccola ditta edile del paese limitrofo, e di andare ad abitare nell’appartamento già ammobiliato che i genitori di Silvia mettevano a loro disposizione, sito proprio vicino al salone. Così lei avrebbe potuto lavorare vicino casa, andando a piedi, e lui, che aveva già l’automobile, avrebbe viaggiato tutti i giorni.
Pochi giorni dopo, il fidanzamento fu ufficializzato col classico scambio degli anelli.
Il tempo volò via rapidamente, senza mai un litigio: i due promessi sposi stettero molto tempo insieme e si scambiarono baci lunghi e indugianti, di fuoco. Seppero però mantenere la promessa che si erano reciprocamente fatti: arrivare vergini.
Passati sei mesi, Antonio, che non aveva trovato un lavoro migliore, andò dal titolare della ditta che gli aveva promesso l’assunzione.
“Sei arrivato giusto in tempo” disse quello. “Credevo che avessi trovato di meglio e stavo per cercare un altro geometra… Ti assumo immediatamente”.
Ed il problema del lavoro era risolto. Antonio lavorò una ventina di giorni e poi si fece dare un periodo di permesso per gli ultimi preparativi.
XII

Arrivò, così, l’atteso giorno del matrimonio, in pieno inverno.
La chiesa prescelta per la cerimonia era quella principale del paese dove abitava e lavorava Silvia e dove, dopo sposati, avrebbero abitato, come prestabilito sette mesi prima.
La giornata, considerata la stagione, non era brutta: era nuvolosa, ma non pioveva né faceva troppo freddo; soffiava solo un po’ di vento.
Antonio, in completo smoking nero e cravatta raffinata, arrivò, tutto emozionato, per primo, come voleva la tradizione, e si mise ad aspettare la sposa, in piedi, di fronte all’entrata della chiesa.
Silvia, altrettanto emozionata, arrivò poco dopo, avvolta in uno stupendo abito da sposa, bianco come la neve: era bellissima.
Antonio si avvicinò sulla sua destra, le diede un bacio su una guancia e la condusse all’altare, al suono dell’organo. La chiesa era piena di fiori variopinti, di nastri e di fiocchi.
Poi gli auguri, le foto, il pranzo al ristorante… Fu una giornata piena, bellissima per gli sposi.
Indimenticabile, indescrivibile fu anche la prima notte d’amore, nella camera da letto dell’appartamento messo a disposizione dai genitori di Silvia.
Essendo entrambi puri, erano un po’ inesperti. Non provavano vergogna, anche se non si erano mai visti nudi, o, meglio, non completamente nudi, dato che un paio di volte, da fidanzati, avevano preso il sole indossando costumi striminziti e lei si era tolta il reggiseno, facendolo impazzire di desiderio.
Ora Antonio e Silvia si avvicinarono, si abbracciarono forte e, in piedi, si diedero un bacio lunghissimo.
Poi iniziarono a spogliarsi a vicenda, in modo alternato. Lui le tolse gli orecchini e la collana di perle e ripose il tutto sul comodino. Lei l’orologio e lo ripose pure, poi la cravatta e la giacca dello smoking.
Lui la giacca e la gonna del tailleur grigio che indossava, la camicetta in seta con la spilla e la maglietta intima, lasciandole il reggiseno, di pizzo bianco. Lei gli sbottonò la camicia e gliela tolse, poi via la maglietta intima; sùbito dopo slacciò la cintura dei pantaloni e glieli levò, aiutata da lui, che si tolse prima le scarpe ed i calzini. Anche lei si tolse le scarpe e lui le sfilò le calze lunghe e velatissime, grigie, lasciandole le mutandine, pure di pizzo bianco.
Si osservarono reciprocamente. I loro corpi, lei in mutandine e reggiseno, lui in mutande, erano ancòra abbronzati. Si studiarono, si piacquero. Il fisico di Antonio era magro, muscoloso, bello, virile. Quello di Silvia era ben formato, molto sexy, irresistibile e fece salire al culmine il desiderio di Antonio, che la tirò a sé e si abbracciarono appassionatamente.
Fuori soffiava un po’ di vento e stava per piovere.
Il solo contatto pelle contro pelle fece loro provare una sensazione piacevolissima. Antonio la toccò tutta, la strofinò, le palpò i seni tondi e sodi da sopra il reggiseno, la baciò sul collo e dietro gli orecchi, anche lei a lui, si scorsero reciprocamente le dita lungo la spina dorsale, nello stesso momento lui le slacciò la chiusura del reggiseno, che lasciò cadere godendosi il contatto eccitante del suo caldo seno nudo contro il petto. La strinse forte a sé, facendole sentire la sua erezione sotto le mutande e lei gliela accarezzò, passandogli prima la mano sulla schiena e poi scivolando sul davanti. Antonio gemette senza volerlo e si liberò, con l’aiuto di lei, delle mutande.
Poi si abbassò e, baciandola sul ventre, le sfilò le mutandine, gettandole da parte: ora erano entrambi completamente nudi in quell’ambiente leggermente freddo.
Fuori, adesso, stava piovendo. Si infilarono entrambi nel letto ed iniziarono a fare all’amore, senza nessun imbarazzo. Lui la penetrò con calma, dolcemente, senza farle male, mentre lei gli avvinghiò le lunghe gambe attorno alla vita, stringendolo più forte quando internamente provò quel dolorino che accompagnò la perdita della sua verginità. Antonio, al quale, comunque, non servivano prove, vide che le lenzuola si erano macchiate. Poco dopo arrivò la piena, si persero nell’indescrivibile piacere dell’orgasmo, toccarono il paradiso, travolti da un pulsante abbandono che li riempì di spasimi di piacere. Lui, svuotato, rimase disteso sopra di lei per un po’; poi riprese a baciarla tutta, a toccarla, ad accarezzarla, a strofinarla, a prendere i capezzoli in bocca, facendola impazzire di piacere.
Continuarono a fare all’amore, insaziabili, fino a toccare il culmine per la seconda volta.
Poi si addormentarono sfiniti; al risveglio fecero ancòra all’amore, godendo per la terza volta in quella bellissima, interminabile, prima notte.
Passarono circa un anno e mezzo, durante i quali Antonio e Silvia, pieni di reciproco desiderio ardente, si immersero nei piaceri del sesso, trascorsero innumerevoli notti d’amore intense quanto la prima.
Per loro era assolutamente falsa la comune affermazione che la prima volta che si fa all’amore si prova un piacere che non si proverà mai più nella vita.
Di giorno lavoravano, ciascuno alla sua attività; di notte soddisfacevano i loro insaziabili appetiti. Per loro non esistevano altre attrazioni all’infuori dei reciproci corpi. Figli non ne erano arrivati, anche se non avevano fatto nulla per evitarli; forse non potevano averne. I soldi non erano un problema: ne avevano a volontà, anche perché i genitori di Silvia erano molto prodighi con loro. Ogni volta che lo desideravano andavano al ristorante, facevano acquisti costosi e voluttuari, regalavano oggetti di valore… Si permettevano tutto ciò che veniva loro in mente.
Antonio e Silvia avevano, dunque, tutto: il lavoro, i soldi, la salute, l’amore. I figli non erano affatto un problema perché, anche se non potevano averne, potevano sempre adottarli.
Ma era davvero amore, sentimento purissimo dell’animo, ciò che li legava? Era davvero passione?
Purtroppo no. Era soltanto una forte e reciproca attrazione fisica che essi, a causa della giovane età, dell’inesperienza in campo sentimentale e del loro matrimonio ingiustificatamente affrettato e non ben ponderato da nessuno dei due a causa della foga giovanile, avevano scambiato per amore vero, per passione pura.
A poco a poco, infatti, quel desiderio ardente si spense, dimostrando la debolezza del loro legame.
Quel matrimonio, apparentemente riuscito, ben presto iniziò a scricchiolare, a traballare, a causa delle fragili basi sentimentali su cui era stato ingenuamente poggiato. Antonio e Silvia non si desideravano più. Piano piano abbandonarono annoiati lo stesso atto fisico del fare all’amore che prima, invece, era la cosa che li appagava di più e che desideravano continuamente. Tutto il desiderio svanì nel nulla; al suo posto restò solo noia.
Antonio soltanto ora si rese conto che avevano avuto ragione i suoi genitori quando gli avevano risposto che era troppo presto per fidanzarsi, a maggior ragione per sposarsi, e che non doveva avere fretta perché c’era sempre tempo.
Pensò: “Avrei dovuto ascoltare il loro consiglio, temporeggiare ed evitare di farmi coinvolgere da Silvia in quella sua stupida, infantile, ingiustificata, fretta per il matrimonio. Lei ragionava come una bambina, ma io sono stato ancòra più immaturo nell’assecondare quel suo desiderio di ragazzina viziata. Ma tant’è! Me lo sono meritato!”.
Soltanto ora capì l’importanza, la necessità del vero sentimento d’amore: anche se meno appariscente all’esterno rispetto al desiderio fisico, è una montanga nell’intimo, è l’unica cosa che permette di andare sempre avanti compatti, uniti, di saldare una coppia, di sorreggere un matrimonio superando quotidianamente ogni tipo di difficoltà.
Antonio tentò di provare sentimento per sua moglie e far così funzionare il matrimonio, il loro legame che non aveva problemi materiali, ma si rese conto ancòra di più che di fronte all’assenza di un vero e spontaneo sentimento di profondo amore, di passione, di trasporto dell’animo il benessere materiale non può nulla, anzi è addirittura dannoso.
Trovandosi ad avere nient’altro che quella noia, lui e Silvia a poco a poco iniziarono a non confidarsi, a rientrare con orari a piacimento, ad andare a mangiare al ristorante senza vedersi o sentirsi, ad uscire da soli, in una parola ad ignorarsi, come perfetti estranei.
Il fatto che disponessero di tanti soldi da poter spendere liberamente contribuiva al loro progressivo allontanamento, in quanto non erano costretti a rientrare a casa per mangiare e- dunque - stare vicini, vedersi, parlarsi, scambiarsi idee ed opinioni.
Poi le cose peggiorarono: iniziarono a litigare. Proprio loro che in due anni non avevano mai litigato, ora non si sopportavano più, non riuscivano più a stare insieme in casa un solo momento senza che volassero insulti, offese, piatti, bicchieri, posate. Ben presto la loro vita familiare diventò un inferno, insopportabile.
Una sera Antonio rientrò a casa prima dell’ormai abituale nuovo orario. Non c’erano luci accese né si sentivano rumori: tutto era tranquillo. Lui, ormai abituato alla solitudine, pensò che Silvia non era ancòra rientrata da una delle sue ormai altrettanto abituali uscite solitarie oppure che dormiva. La cosa non lo interessò più di tanto. Stava per accendere il televisore, al buio, quando sentì un piccolo rumore in camera da letto. Andò a vedere, accese la luce e la sorprese nelle braccia di un uomo: stavano tranquillamente ed appassionatamente facendo all’amore.
Per Antonio fu come ricevere una coltellata al petto. E’ vero che non andavano d’accordo, che si ignoravano, che ognuno ormai faceva di testa sua, che uscivano e rientravano a piacimento, che l’infedeltà è inevitabile in una coppia che non è legata da sentimento d’amore, ma per lui fu ugualmente una brutta sorpresa. Una cosa è immaginare certe azioni, tutt’altra cosa è trovarsele davanti al naso. Lui, che non si era neanche solo sognato di fare una cosa del genere alla moglie, anche se si odiavano, anche se non si amavano, rimase di stucco nel vederla nelle braccia di Orlando, il bruto che appena due anni prima l’aveva massacrato di botte per lei. Ma fu un attimo.
Si riprese sùbito e, mentre i due avevano smesso e si stavano rapidamente rivestendo senza pronunciare una parola, disse loro: “Scusate il disturbo, continuate pure tranquilli”.
Quella notte Antonio non rientrò più a casa. Andò al bar e bevve per dimenticare. Non era nervoso, almeno esternamente. Il barista ed i presenti non si insospettirono affatto.
Erano abituati a vedere in giro separatamente lui e la moglie negli orari più strani.
“Ormai non possiamo più abitare sotto lo stesso tetto” disse a Silvia con tono rassegnato il giorno successivo.
“Sono d’accordo con te, se è questo che vuoi” rispose lei, altrettanto rassegnata.
“Avvierò la pratica per il divorzio. Oggi stesso lascio la casa, visto che è dei tuoi. Andrò ad abitare dai miei, li ho già informati”.
“Non ti creerò intralci per la pratica”. Tacque, poi aggiunse: “Siamo stati bene insieme, finché è durata”.
“Sono d’accordo”; “Addio!” aggiunse poi con voce roca.
“Addio!” rispose lei. E si separarono.
XIII

Antonio caricò sull’auto tutti gli effetti personali e ritornò dai propri genitori, i quali lo accolsero felici, anche se sinceramente e segretamente dispiaciuti per il fallimento del suo matrimonio.
“Il tuo lettino è sempre libero ed anche la stanza” disse affettuosamente la madre, abbracciandolo. Era molto emozionata, perché per lei era come aver ritrovato un figlio perduto.
“Avevate ragione voi quando…” iniziò a dire Antonio, ma il padre lo interruppe dolcemente, abbracciandolo e dicendo: “Non dire nulla, Antonio, non dire nulla. Era destino”.
Nessuno volle fargli ricordare più di tanto quel consiglio inascoltato né fargli pesare l’errore commesso. Aveva già sofferto abbastanza, ora doveva soltanto dimenticare e ricominciare daccapo.
“Hai soltanto ventidue anni. Presto troverai la donna del cuore” lo consolò il padre.
“Non so se sarò capace di ricominciare, di innamorarmi davvero…”.
“Lo sarai, lo sarai. Adesso vedi tutto nero, sei pessimista, ed io ti capisco. Ma vedrai che passerà presto”.
“Grazie, papà”.


Con la comprensione di tutti, Antonio riuscì a tornare alle vecchie abitudini familiari, a riprendere le vecchie amicizie, ad essere quello di una volta. Già, di una volta, perché aveva l’impressione che quei due anni fossero stati molti di più.
Continuò il suo lavoro di geometra, viaggiando ogni giorno con la sua Fiat 127 e mettendo i soldi da parte. Tante volte provò a darne ai genitori, in segno di riconoscenza, ma essi sempre, gentilmente, li rifiutarono dicendo: “Mettili da parte. Non vogliamo soldi, sei nostro figlio e ti vogliamo bene come a tutti gli altri figli. Vogliamo solo che tu sia felice”.
Ma il difficile era proprio questo: Antonio, pur lavorando e guadagnando, pur vivendo nella famiglia che l’aveva cresciuto, pur avendo ripreso le vecchie abitudini ed amicizie, non riusciva ad essere felice davvero, totalmente, nel suo intimo più profondo, anche se esternamente non lo dimostrava.
Tutto ciò al contrario di Silvia, da cui si era separato in attesa del divorzio, che conviveva felice e tranquilla con Orlando e che, a quanto diceva, si amavano davvero.
Antonio non era invidioso, non provava nulla nel vederla in giro in paese con Orlando, sorridente ed innamorata. Non c’era nessun motivo per esserlo. Anche lui era libero di innamorarsi davvero di una donna, di amarla e di essere amato. A era capace veramente di innamorarsi?
Lui nutriva forti dubbi in proposito; infatti pur conoscendo tante ragazze, nessuna lo interessava, non le guardava neanche come donne, ma solo come amiche.
Cercò di innamorarsi volutamente, di imporsi di innamorarsi, ma fu perfettamente inutile: non provò nessun sentimento d’amore.
Aveva sempre sentito dire che l’amore sboccia all’improvviso, quando uno meno se lo aspetta, e che è imprevedibile, nel senso che può nascere tra due persone che non se lo sognerebbero neppure e ciò era l’unica cosa che gli permetteva di continuare a sperare di innamorarsi, dato che il farlo volutamente era impossibile. Ma l’amore poteva essere così improvviso ed imprevedibile anche per lui?
Egli continuava a sperare ardentemente di sì, desiderava che anche lui potesse d’un tratto scoprire di provare quel sentimento purissimo dell’animo per qualche ragazza e di essere ricambiato.


Erano già passati quasi due anni dal giorno in cui Antonio era ritornato a casa dei genitori, senza che nulla avesse potuto svegliare in lui sentimenti di amore, di passione pura.
Ormai nutriva dubbi sempre più forti sulla sua capacità di innamorarsi.
“Forse non sono nato per provare questo sentimento purissimo” si diceva tra sé e sé nei momenti di più grande tristezza intima. “Forse la colpa è mia perché ho voluto precorrere i tempi col matrimonio, perché - così facendo - non ho permesso al mio cuore di sviluppare tale sentimento, che è rimasto embrione” si rodeva dentro.
Ma un giorno, all’improvviso, avvenne l’imprevedibile, l’imponderabile, che in un batter d’occhi gli fece dimenticare il matrimonio fallito e l’intima tristezza di quegli ultimi due anni.
Era sabato, perciò lui era a casa, libero dal lavoro. Ebbe l’idea di andare, come sempre, a casa di Maria, la vicina di casa, amica d’infanzia, che era sei anni più piccola di lui: aveva, infatti, diciotto anni appena compiuti.
Andava spesso a casa sua, sin da piccolo, perché era molto amico con tutti i suoi familiari. Egli stesso era come uno della famiglia. Per lui vedere o parlare con Maria era come vedere o parlare con uno dei due fratelli di lei. Lei per lui non esisteva come donna, e forse anche viceversa, data la familiarità, il forte sentimento d’amicizia, il contatto continuo.
Trovò la porta chiusa, però con la chiave infilata nel buco della serratura. Ne dedusse che c’era qualcuno, non dentro, ma vicino casa.
“Ehi, di casa, non c’è nessuno?” chiese a voce alta per farsi sentire. Nel frattempo gironzolava sullo spiazzo in cemento antistante alla porta.
“Sono qui, sul ciliegio, dietro casa”. Riconobbe la voce familiare di Maria. Girò intorno al muro di casa.
“Sto raccogliendo un po’ di ciliegie per i miei, che in questo momento sono tutti al lavoro”.
“Attenta a non cadere”, raccomandò, senza averla ancòra vista su quell’enorme albero.
“Certo, non preoccuparti. Se vuoi mangiarne, puoi scegliere: o sali sù oppure ti butto io dei rami carichi di ciliegie”.
“Sai che ho un po’ paura a salire sugli alberi, soprattutto se enormi come questo. Perciò preferisco la seconda opzione” disse ridendo.
“Va bene, eccoti servito” la sentì dire e, nello stesso momento, si vide cadere davanti ai piedi, sull’erba, quattro o cinque rami stracolmi di grosse e succose ciliegie rosse.
“Grazie, va bene così, sono già troppe” disse, raccogliendo quei rami e scostandosi da sotto il ciliegio per vederla.
Finalmente la vide: Maria era proprio su uno dei rami più alti, dove le ciliegie erano più rosse, e quindi più mature, perché più esposte al sole. Aveva appeso il paniere ad un rametto, abbastanza robusto per sorreggerlo, e vi riponeva dentro le ciliegie che raccoglieva con la mano destra, dato che la sinistra era impegnata a tirare verso di lei con un uncino di legno il ramo sottile e lungo da cui stava raccogliendo i prelibati frutti.
Era in piedi su un ramo, tranquilla, sicura, con le scarpe da tennis bianche. Indossava un paio di blue-jeans rattoppati ed una stretta maglietta di cotone celeste, che lasciava intravedere, sottolineandolo, il suo bel seno. I lunghi capelli neri erano, come sempre, legati a treccia sulle spalle.
Fu il classico colpo di fulmine, improvviso ed imprevedibile. Antonio, osservandola dal basso in alto, come non gli era mai capitato durante tutti quegli anni di conoscenza, rimase allibito, estasiato, colpito dalla bellezza di quel fisico di donna ormai formato.
Questa volta non era semplice attrazione fisica, ne era sicuro perché sentiva di provare un forte e profondo sentimento dell’animo, passione pura, amore…
Sì, amore, proprio ciò che non era mai stato capace di provare fino ad allora, né con Silvia né durante i due anni successivi alla separazione. Ed ora, all’improvviso, il suo desiderio era stato esaudito: si era innamorato, tanto improvvisamente quanto inaspettatamente, proprio come aveva sempre sentito dire riguardo all’amore.
Sì, per esperienza diretta, era sicuro che il vero amore, sentimento purissimo dell’animo, passione pura, era proprio ciò che provava adesso, che lo turbava tutto, che gli pervadeva tutta la mente ed il cuore, che spazzava dolcemente tutti i brutti ricordi, che portava via quella sua intima tristezza, lasciando il posto a quella felicità totale sempre desiderata ma mai provata fino a quel momento.
Si sentì rinascere, rivivere. Capì la grande differenza che c’era tra la grandezza, la profondità di ciò che provava ora e ciò che aveva a suo tempo miserabilmente provato per Silvia. Questo sì che era amore vero, sentimento puro, forte come una roccia, invincibile, inattaccabile, una fiamma dentro. Non l’attrazione fisica, tanto forte quanto fragile, come un fiammifero che lo si accende e si spegne dopo un po’.
“Ehi, Antonio, non mi hai sentita?”.
“Scusami, Maria, ero soprappensiero… Cosa dicevi?”.
“Nulla d’importante… Ti avevo chiesto l’ora, dato che mi si è fermato l’orologio”.
“E’ quasi mezzogiorno”.
“Accidenti, mi devo affrettare perché devo preparare da mangiare”.
“Maria, ti devo dire una cosa molto importante…”.
“Sono tutta orecchi!”.
Antonio, lievemente arrossito, con lo sguardo a terra, aveva appena iniziato a dire “Ti prego, non pensar male: sono sincero. Mi sono innamorato…” quando un rumore improvviso di ramo che si spezzava lo interruppe.
Guardò verso il ciliegio ed in quella frazione di secondo, impotente, la vide precipitare a terra, sbilanciata, da altezza considerevole. Lei non ebbe neanche il tempo di gridare, sùbito batté pesantemente a terra con la testa, tra le pietre, accanto ad una ginestra in fiore, verde e gialla, che - scossa - emanò il suo caratteristico profumo, come per dare l’addio a quella giovane vita.
Accorse disperato verso il povero corpo di Maria, si inginocchiò accanto a lei e le prese una mano fra le sue. Lei, che aveva tutta la testa bagnata di sangue, lo guardò con amore e, leggendogli sulle labbra la conclusione di quella frase, quel “…di te” che lui pronunciò disperato ma che lei non poté sentire, spirò.
Un leggero venticello sfiorò la ginestra e le accarezzò il viso, ancòra colorito.
Antonio la accarezzò teneramente per quella prima ed ultima volta, le chiuse gli occhi con una mano e si mise a piangere disperatamente accanto al suo corpo ormai senza vita.
Le sue lacrime copiose cadevano sull’erba, ai piedi della ginestra, su quella stessa erba che, nel frattempo, aveva formato una grande corona porporina intorno alla povera testa martoriata di Maria.
Non lo sentiva né arrivava nessuno: Antonio continuava a piangere, in ginocchio, sempre più disperato, nella solitudine più totale. Oltre ai suoi singhiozzi ed al suo pianto, si sentiva soltanto il canto tranquillo degli uccelli, che sembrava essere dedicato a quell’anima pura, appena salita in Cielo, richiamata da Dio.
“Dio mio, perché l’hai fatto?” si chiedeva ad alta voce, piangendo a dirotto e bevendo quelle lacrime amare, disperate, che gli scendevano su tutto il viso. “Perché hai voluto farmi questo? Perché mi hai fatto conoscere, per la prima volta, il vero sentimento d’amore e sùbito dopo mi hai tolto la donna di cui mi ero innamorato? Perché non le hai dato neanche il tempo di dirmi qualcosa? Perché hai voluto farmi sentire il profumo e sùbito dopo mi hai levato il tenero fiore? Perché mi hai tolto la cosa più bella che mi avevi concesso in questi miei ventiquattro anni? E perché ti sei preso Maria nel fiore della giovinezza, senza darle il tempo di innamorarsi?”.
E, struggendosi in questi interrogativi, di tanto in tanto alzava lo sguardo.
Poi sentì che stavano per mancargli le forze, che stava per svenire per il profondo dolore… Vide alcuni uccelli, altissimi, volare lenti e silenziosi nel cielo sereno sopra di lui… I raggi del sole lo accecarono un po’… Svenne, accasciandosi sull’erba accanto al corpo di Maria, a faccia in sù, verso il cielo. Ma era uno svenimento particolare, diverso… Non gli era mai capitato di svenire e contemporaneamente non perdere i sensi.
Lui, che era già svenuto quando Orlando l’aveva massacrato di botte per Silvia, ne era consapevole per esperienza diretta: questo svenimento era proprio una contraddizione in termini.
Provava una fortissima sensazione di nullità che lo schiacciava pesantemente a terra, che lo pervadeva tutto, fin nelle ossa, e che a poco a poco gli annullò la capacità di pensare autonomamente. Il sole si fece forse cento volte più luminoso sopra di lui, accecandolo, anche se i suoi occhi erano serrati. Era come uno spettatore immobilizzato, costretto ad assistere a qualcosa, senza avere il controllo dei sensi, senza avere le normali percezioni di sempre. Veniva accecato da quella luce, ma non capiva se la vedeva davvero con gli occhi oppure se la percepiva con la mente, ma con lo stesso effetto della vista. Senza pensarlo, percepì Dio, nettamente, come se da sempre ne avesse avuto coscienza.
Nella sua mente, incapace di pensare, di percepire la realtà, i sensi, Antonio - invece - percepì, provando la stessa impressione di averne avuto coscienza da sempre, che Dio gli aveva fatto rivivere, in tutto e per tutto, un periodo della sua vita in una diversa dimensione del tempo, più breve della prima ma da lui percepita di uguale durata e come “la realtà”, non “un’altra realtà”, dopo averlo reso assolutamente incosciente della precedente vita vissuta. Ebbene, alla stessa età di ventiquattro anni, si era innamorato sempre di Maria, liberamente, senza costrizioni, col libero arbitrio. Ciò significava che il suo amore per lei era vero, profondo, sentimento purissimo dell’animo, passione pura. Pertanto, non poteva più avere dubbi né rimpianti per Silvia. Ciò che provava per lei non era altro che fortissima attrazione fisica, che poteva scomparire da un momento all’altro. Anche se lui si era comportato in modo diverso dal precedente periodo della sua vita, alla fine il risultato era stato lo stesso. Ciò significava anche che non si può umanamente cambiare il destino. Lui riceveva già l’immenso e sincero amore di Maria. E’ per questo motivo che Dio, in quella diversa dimensione del tempo, se l’era richiamata, dopo averle dato soltanto una frazione di secondo per capire che Antonio si era innamorato di lei.
Mentre percepiva queste cose, Antonio si rese conto che poteva pensare, ma solo relativamente a quanto rivissuto.
Stranamente, nello stesso momento in cui si poneva un interrogativo, immediatamente ne percepiva la risposta, però non tramite qualche voce, bensì direttamente nella mente, come se l’avesse sempre conosciuta.
Provò a chiedersi com’era stato possibile rivivere e sùbito si vergognò di sé stesso perché sapeva - ma quella era proprio la risposta immediata - che Dio è onnipotente. Si chiese se sarebbe potuto tornare dalla sua Maria e già sapeva di sì. Se avrebbe ricordato qualcosa e già sapeva che avrebbe rammentato solo come un sogno, come un delirio, senza nessuna certezza, e che molto sarebbe dipeso dal libero arbitrio. Poi come sarebbe stato il futuro, e si vergognò di nuovo perché sapeva - ma quella era sempre la risposta immediata - che non lo si può prevedere perché dipende dal libero arbitrio e dal caso, quest’ultimo voluto da Dio in modo assolutamente imprevedibile. L’insieme delle due cose, entrambe imprevedibili, decide il futuro. Dato che sentiva che non gli era concesso di pensare liberamente, Antonio se ne chiese il perché, e si vergognò ancòra una volta perché sapeva - ma era sempre la risposta immediata - che in caso contrario si sarebbe posto domande per le quali non è possibile conoscere le risposte, pena la pazzia, l’imprevedibile, l’imponderabile, una reazione a catena non più arrestabile né controllabile.
Ad un tratto la luce si affievolì e lui perse i sensi; il suo svenimento divenne - così - normale, non era più una contraddizione.
Un attimo dopo si ritrovò, senza accorgersi assolutamente di nulla, nella realtà di partenza, che percepì come quella di sempre, come in effetti era. Aprì gli occhi, uscendo dal coma profondo in cui si trovava da poco più di due mesi.

...omissis...

ULTIMA DI COPERTINA E TRAMA:

AUTORE: Salvatore BRUNO BOSSIO, nato a Cosenza il 29/09/1963. Ragioniere. All’epoca (nel 1990, quando scrisse il presente romanzo) era coniugato e viveva a Grimaldi (CS), dove esercitava la professione di Consulente Aziendale. 
Ad oggi, “Dolce profumo di ginestra in fiore” è rimasto il suo primo ed unico libro.
Il prezzo di copertina era di Lit. 20.000.-


Antonio e Maria, due giovani di origine contadina, sono felicemente sposati da quattro anni.
Il loro amore, sbocciato improvvisamente ed inaspettatamente, quasi per caso, è proprio di quelli con la “A” maiuscola: immenso, sentimento purissimo dell’animo, trasporto, passione pura, una “fiamma dentro”.
Per loro il rispetto reciproco e la fedeltà sono sacri.
Hanno due figli, assai intelligenti e vispi: Elisa e Michele. La loro è una famiglia tutto sommato felice, ma da circa un anno grossi problemi finanziari la stanno insidiando, tanto che Antonio sta perdendo, a poco a poco, lo spirito ottimista che ha sempre avuto.
A ciò si accompagna un inspiegabile senso di tristezza interiore, di cui lui stesso non riesce a capire la causa. Al mare gli capita di salvare la vita a Silvia, una bella donna della quale lui, dieci anni prima, è stato pazzamente e segretamente innamorato.
Da questo momento in poi i suoi sentimenti saranno messi a dura prova. Cosa succederà? Il suo grande amore per Maria supererà la difficile prova? Riuscirà Antonio a raggiungere la sospirata “felicità totale”? Supererà la forte crisi finanziaria? Farà successo il romanzo sentimentale che scriverà con tanta cura e passione? Si rivelerà vero che la gioia e la felicità non dipendono dal denaro?



https://www.facebook.com/notes/salvatore-bruno-bossio/primi-13-capitoli-su-28-trama-del-mio-libro-dolce-profumo-di-ginestra-in-fiore-s/10200994669668255





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